David Benatar. Meglio non esser mai nato.

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view post Posted on 2/2/2014, 12:27
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Nel suo post del 26/1 Paolo ha introdotto molti temi assai rilevanti, lasciandone anche, con un po’ di malizia, alcuni dei più controversi in sospeso (e speriamo solo che trovi la possibilità di svilupparli). In casi come questi per chi vuol replicare, la soluzione più semplice che viene alla mano è quella di mantenere all’ingrosso i temi introdotti, ma semplicemente parlare, su quegli stessi argomenti, delle “proprie” opinioni, basate sui “propri” autori e sui “propri” libri. Il fatto però è che in questo modo, e lo si vede spessissimo, il dialogo che si avvia in realtà è solo il correre parallelo di due soliloqui.
Questa volta allora cercherò di restare aderente alla traccia presentata da Paolo, evitando di contrapporre le mie convinzioni alle sue - verosimilmente non poco diverse - e provando piuttosto a farmi per prima cosa un’idea su alcuni autori cui ha accennato, tanto più in quanto si tratta di autori che conosco poco o non conosco affatto. E questo col principale intento di segnalare quali ulteriori letture – a mio avviso - dovrebbe fare un eventuale lettore interessato e "neutrale".
In particolare mi pare che il tema introdotto da Paolo, ridotto alla sua più asciutta essenza (e mi perdoni se magari fraintendo), sia quello di tutta la serie delle “sovrastrutture”, delle “sovradeterminazioni” – non so quale termine adeguatamente generale utilizzare – che attualmente ci plagiano e ci impongono comportamenti e scelte che alla fine non sono più realmente liberi. E questo, mi sembra di capire leggendo il suo post, a partire dai condizionamenti sociali, economici, di costume, di consumo, etc. sino addirittura allo stesso ruolo centrale della sessualità; e mi resta il dubbio – sperando se ne possa ancora discutere - se Paolo arrivi a contestare non solo l’indubbia distorsione consumistica ed edonistica della sessualità, ma addirittura la rifiuti anche come pulsione “naturale”. In altre parole: nel suo tirare in questione lo stesso neodarwinismo e l’evolutionary psychology, se egli rifiuti la sessualità nella visione distorta che ne danno queste teorie scientifiche magari ideologicamente funzionali ad un certo tipo di assetto sociale, o se rifiuti la sessualità impostaci dalla natura stessa e di cui quelle teorie colgono in modo sostanzialmente corretto i meccanismi.
Sono questioni, al di là delle opzioni personali, di grande peso filosofico e storico. Lo stesso riferimento di Paolo alla crisi dell’impero romano e della nascita del cristianesimo è estremamente pertinente al dilemma; in quell’epoca infatti l’impulso alla sessualità - e lo si vede chiarissimamente in Agostino che vi costruisce attorno tutta la sua concezione del peccato originale – è visto sì teoricamente come una distorsione sopravvenuta nel tempo della nostra vera originale natura “edenica”, ma tale distorsione ha carattere storico solo in apparenza, essendo il peccato originale alla fonte stessa della nostra storia, lo stesso primo “big bang” della vicenda umana. In altre parole i primi cristiani di fatto non contestavano l’edonismo, anche sessuale, così tipico della classicità, come se fosse il portato storico del modo in cui era organizzato l’impero romano-ellenico ovvero della sua ideologia, dei suoi valori o dei suoi costumi. Ciò che essi contestavano era la sessualità “naturale” come tale ed infatti - di contro per esempio a quanto avrebbe fatto l’Islam (in continuità con certa valutazione non negativa che dava l’ebraismo a cui anche Paolo accenna) - concepivano la vita umana, una volta inveratasi in Dio, come totalmente affrancata da ogni concupiscenza.

In ogni caso per cominciare ad affrontare in un qualche modo questo tipo di problematiche così vaste, ho voluto innanzitutto - come dicevo - capire qualcosa di alcuni degli autori che Paolo ha citato, David Benatar e Laura Betzig. Ovviamente non so cosa lui ne pensi o come li abbia letti, se li ammiri o li contesti, e non so nemmeno se vorrà spiegarcelo in futuro. Di David Benatar e delle sue singolarissime tesi non dà un suo giudizio ed io per parte mia nemmeno ne conoscevo il nome. Ho letto quindi innanzitutto il suo libro più noto, “Better Never To Have Been. The Harm of Coming into Existence” pubblicato nel 2006 e che, come anche accenna Paolo, ha dato una notevole notorietà al suo autore.
Il testo è disponibile online: www.scribd.com/doc/187107111/David-...-Existence-2006.
Il mio giudizio personale non è in complesso molto positivo, come si vedrà, ed in certi punti è totalmente negativo, ma questo ovviamente non conta nulla. Non ho inteso assolutamente farne una recensione, ma solo offrire alcune mie impressioni, traducendo alcuni passi che mi sono sembrati interessanti per capire quali letture ulteriori affrontare.
Va da sé che potrebbero esservi errori o fraintendimenti in quanto segue, non trattandosi di esporre le mie opinioni, ma quelle altrui, e quindi è sempre buona regola controllare.



David Benatar: “Meglio non esser mai nati”.



Il libro di David Benatar, un professore di filosofia dell’Università di Città del Capo in Sudafrica, ha come suo intento quello di dimostrare che l’umanità raggiungerebbe il suo massimo grado possibile di felicità estinguendosi del tutto; che quindi è sostanzialmente riprovevole dal punto di vista morale decidere di mettere all’esistenza un figlio e che il mondo idealmente desiderabile è Marte, cioè un ambiente totalmente sterile alla vita.

Questa mia non è un’introduzione parodistica; queste sono realmente le idee presenti nel libro e lo stesso autore mette in guardia dal prenderle come semplici paradossi: “Affinché non si pensi che gli argomenti che io avanzo siano stati concepiti come semplici giochi o scherzi filosofici, vorrei sottolineare che sono assolutamente serio nei miei argomenti e credo nelle conclusioni.” (p. 5)
Chiunque, sentendo di che si tratti, potrebbe pensare legittimamente che il saggio in questione debba contare qualche migliaio di pagine, al minimo. Argomentare un simile complessivo rifiuto del fenomeno della vita - umana ma non solo - in nome delle preponderanti sofferenze che essa comporta – dovrebbe coinvolgere un’infinita quantità di riferimenti storici, filosofici, scientifici. Nei secoli che ci sono alle spalle, come anche nella vita quotidiana di quasi tutti noi, non c’è uomo che non si sia domandato almeno una volta, al suo grado di approfondimento speculativo, se la vita che sperimenta come quella che vede attorno a sé, valesse poi davvero la pena di essere vissuta.
Saggio ampio, e quindi anche estremamente arduo per le competenze multidisciplinari che richiederebbe. Ma il libro di Benatar non conta che poco più di 200 pagine, con pochissimi riferimenti storici al dibattito millenario sul tema. Qualche rara citazione di autori che sul tema hanno espresso opinioni simili, come Arthur Schopenhauer, è per lo più limitata alle citazioni in testa ai vari capitoli. Parimenti molto generica è la parte scientifico-biologica.

La cosa si spiega facilmente. Questo, come ognuno se ne avvede subito, è un tipico saggio anglosassone di scuola “analitica”. Esso quindi non ha esitazione ad affrontare anche temi di portata vastissima e di rilevanza eterna, ma invece di impostarli in tutta la loro portata storico-filosofica, li enuncia nel modo più succinto e stringato e apparentemente esaustivo; espone quindi una serie di dati di fatto che appaiono accettati per comune consenso dei più e da essi trae conseguenze rigorose, o apparentemente tali, che a quel problema sembrano dare una risposta obbligata e indiscutibile. Implicitamente questo tipo di filosofia fa intendere sempre che il retroterra storico dei temi filosofici sia per lo più l’accumulo confuso di pregiudizi mentali o anche solo linguistici e che la lucida applicazione della ragione analitica riesca sempre a sfrondare il superfluo e a ridurre tutto al suo più semplice scheletro logico.
Personalmente, come semplice lettore, ho pochissima sintonia con questo tipo di fare filosofia; i problemi ne escono spesso banalizzati come da un lavoro di pialla che non rispetta né venature, né linee storiche; inoltre spessissimo l’essiccazione radicale del problema restringe anche le stesse possibilità di analisi, per cui in genere non si incontrano che due o tre argomenti continuamente ripetuti e riproposti; e questo, unito alla mancanza di sfondo storico, porta assai facilmente alla noia, come in certe pièces contemporanee fatte da un paio di personaggi che recitano nel vuoto di un fondale nero.

In ogni caso - per esporlo in poche righe - il teorema fondamentale di Benatar è che mettendo al mondo un nuovo essere umano dobbiamo assumerci la responsabilità morale dei mali e delle sofferenze inevitabili che egli proverà; laddove, se vi rinunciassimo, l’unica cosa che ci potrebbe essere imputata sarebbe di aver privato un essere possibile di alcuni possibili piaceri. Dunque da un lato la corposa responsabilità morale di mali reali inflitti ad un essere reale – dall’altro quella incomparabilmente più lieve di non aver concesso beni ipotetici ad un essere mai esistito. Secondo Benatar a questo punto non può esservi dubbio circa la scelta morale da fare: è assai più apprezzabile il rinunciare alla riproduzione e interrompere la catena dell’essere al nostro anello presente e portare in tal modo l’umanità all’autoestinzione: “Alla domanda “quanti esseri umani dovrebbero esistere?” la mia risposta è “nessuno”. Ovverossia io non penso che avrebbe mai dovuto esistere alcun essere umano. Stante il fatto che esseri umani ci sono, ritengo che non ce ne dovrebbero essere più.” (182)

Lungo tutto il libro, le obbiezioni che via via l’autore ipotizza per le sue tesi, egli le supera sempre con questo stesso argomento, definito (vedi oltre) “Asymmetry of pleasure and pain”: l’essere umano che non è stato nemmeno concepito, ed è quindi un’entità totalmente nominale, non solo non potrà mai soffrire, ma nemmeno potrà mai aver modo alcuno di dolersi per aver perso le eventuali gioie che pure l’esistenza offre. Il suo quindi è un bilancio edonistico totalmente positivo, in cui non c’è nessuna voce passiva da conteggiare. Per conseguenza la soluzione del “never have been” è sempre a suo avviso trionfante.

E’ proprio per questo che Benatar esplicitamente distingue le sue tesi da quelle di chi più genericamente e meno radicalmente riconosce che il mondo è attualmente un posto troppo orribile per farvi nascere i propri figli, ma che, almeno in astratto, il venire all’esistenza potrebbe essere desiderabile in un diverso e non impossibile mondo più pacifico. Per l’autore questo è escluso logicamente in radice e sempre in virtù dello stesso argomento: chi non è mai nato per definizione non soffre per mali che non ha e non soffre per i beni che avrebbe potuto avere. Di fronte a questa condizione in cui la voce ‘sofferenze’ è sempre a zero, nessuna alternativa immaginabile può essere preferibile, perché ogni esperienza esistenziale non potrà non aggiungere qualcosa, sia pur poco, a quella voce.

Così per l’autore non ha senso controbattere che possono esservi vite in cui c’è anche del bene o soprattutto del bene o solo assai poca sofferenza. In ogni caso vi sarà comunque un po’ di sofferenza, e dunque ancora una volta l’opzione del “never have been” prevale: “Una delle implicazioni della mia tesi è che una vita piena di beni e contenente solo la quantità più piccola di mali - una vita di felicità assoluta adulterata solo dal dolore di una singola puntura di spillo – è pur sempre peggiore che la totale non esistenza. (...) Chi infatti potrebbe negare che quel breve acuto dolore è pur sempre un danno, sia pure minore? Ma allora se si riconosce che è un danno – danno che si sarebbe evitato se la vita non fosse iniziata – perché dovremmo negare che la vita stessa pagata a quel costo è essa stessa un danno, anche se minore? (...) E comunque nel mondo reale, le vite degli individui non sono nemmeno alla lontana così fortunate.” (48-9).

L’unica possibilità reale di confronto potrebbe essere dunque soltanto con una vita che contenesse null’altro che bene e godimento, ma, ovviamente, tale vita non esiste: “Quando dico che venire all’esistenza è sempre un danno, non dico che esso è un danno per necessità [scil. logica]. (...) il mio argomento non si applicherebbe a quei casi ipotetici in cui la vita contenesse solo bene e non male. In rapporto ad una simile esistenza, io direi che non sarebbe né un danno né un guadagno e che noi dovremmo giudicare alla pari una tale esistenza e il non essere venuti all’esistenza. Ma nessuna vita è di questo tipo. Ogni vita contiene qualche male e per conseguenza il venire all’esistenza di una tale vita è sempre un danno.” (28-9).

Come spesso avviene nei testi di filosofia analitica, l’autore provvede anche ad una certa formalizzazione logica, introducendo, come s’è accennato, l’argomento per lui centrale della “Asymmetry of pleasure and pain”: dal fatto che (1) la presenza di dolore è cattiva, e che (2) la presenza del piacere è buona, non consegue simmetricamente che (3) l'assenza di dolore è buono, e (4) l'assenza di piacere è male. Nei primi due casi la “presenza” del dolore e del piacere presuppone esseri necessariamente esistenti; nel secondo caso può valere sia per individui esistenti che per esseri mai venuti all’esistenza, ma in questo caso il male di cui al n. (4) vale solo per i primi e non per i secondi. L’argomentazione è presentata a p. 30-1 ed ha una formulazione diversa, ma alla fin fine si tratta sempre del medesimo teorema: per i non esistenti vale il bene della mancanza di dolore, ma non vale il male della mancanza di piacere, perché non lo potranno mai rimpiangere; dunque il loro “bilancio” pleasure/pain è indiscutibilmente migliore.

L’argomentazione dell’’asimmetria’ è ancora inesorabilmente ripetuta per esempio a pp. 34-5: “Si può rimpiangere di non aver avuto figli, ma non perché quelli che avremmo potuto avere siano stati privati dell’esistenza. Il rimpianto di non avere figli è relativo a noi stessi – cioè di non aver avuto l’esperienza della gravidanza e della crescita dei figli. Ma se noi abbiamo rimorso per aver generato un figlio con una vita infelice, lo facciamo in relazione a lui, oltre che anche a noi stessi; laddove invece mai potremmo deprecare di non aver portato all’esistenza qualcuno [scil. in relazione a lui stesso] perché l’assenza di dolore non è un male.”

E ancora, a proposito dei marziani: “Nessuno si mette a compatire gli inesistenti abitanti di Marte, deprecando tutti i beni della vita che essi si perdono. Mentre invece se venissimo a sapere che su Marte vi è vita e quindi anche sofferenza, noi potremmo ben compatirli (...) Il punto è che noi possiamo compiangere la sofferenza ma non l’assenza di piaceri per coloro che non potrebbero essere venuti all’esistenza.” (35).

E ancora più oltre: “è assurdo iniziare una vita per i piaceri ‘intrinseci’ che la vita comporterà. La ragione di questo è che i piaceri intrinseci di chi esiste non costituiscono un beneficio netto sopra chi invece non esiste. Se si è in vita, è bene averli, ma essi sono acquistati a costo della sfortuna della vita - un costo che è assai considerevole.” (73) Etc. etc.
Una delle obbiezioni possibili cui Benatar dedica maggior spazio è quella - che ognuno saprebbe istintivamente formulare - secondo cui il giudizio così negativo che egli dà del bilancio edonistico dell’esistenza umana, non è in genere condivisa dagli esseri umani stessi. Molto probabilmente una grande percentuale di noi tutti, se posta di fronte alla questione se la sua vita alla fin fine valga la pena di essere vissuta, darebbe comunque una risposta positiva ed in cuor suo resta grato ai propri genitori per averlo messo in vita: “La maggior parte delle persone negano che la loro vita, tutto sommato, sia così cattiva (e certamente negherebbe che lo sia al punto da rendere preferibile che non fosse mai stata). Nei fatti la maggior parte della gente pensa che la propria vita sia abbastanza buona. Tali diffuse spensierate autovalutazioni del proprio benessere, si pensa spesso, costituiscono una confutazione del parere che la vita è un male. Come può – ci si chiede - la vita essere un male se la maggior parte di coloro che la vivono negano che lo sia? Come può essere un danno il venire all'esistenza, se la maggior parte di coloro che esistono sono contenti che ciò sia avvenuto?” (64).

La risposta dell’autore si svolge su diversi piani, ma soprattutto cerca di dimostrare che gli esseri umani esistenti sono in genere troppo ottimisti sulla loro reale condizione esistenziale (illusi da quello che dal romanzo edificante pubblicato nel 1913 dalla scrittrice statunitense Eleanor Porter è stato chiamato “Pollyanna Principle”, cioè la tendenza a vedere in positivo anche le peggiori disgrazie): “diversi caratteri della nostra psicologia, inclusi il Pollyannaism, l’adattamento alla sfortuna e il confronto della nostra vita con quella degli altri, tutti cospirano a far sì che le nostre vite ci sembrino molto migliori di quello che esse realmente sono. Noi siamo ciechi quindi di fronte agli aspetti negativi della nostra propria vita.” (118).

Dunque noi tutti siamo portati a sopravvalutare i beni di cui godiamo ed a minimizzare i dolori, ma in realtà per Benatar le nostre esistenze sono molto peggiori di quel che crediamo: “Anche se tutti sono danneggiati dall’essere portati all’esistenza, non tutte le vite sono egualmente disgraziate. Così per alcuni sarà stato un danno maggiore che per altri. (...) Io tuttavia sosterrò che anche le migliori vite siano molto disgraziate e che quindi essere portati all’esistenza è sempre un danno. (...) le vite degli esseri umani sono molto peggiori di quello che essi pensano e tutte contengono una grande quantità di male.” (61) E infatti non mancano diverse pagine dedicate - qui sì con ingenuo ottimismo sulle proprie capacità di sintesi - ad enumerare i tanti casi di catastrofi e disastri che in genere affliggono il genere umano (cfr. per es. pp. 88-92).

In considerazione di tutto ciò dunque, il fatto che gran parte degli esseri umani non concordi con la valutazione proposta da Benatar, non può essere una ragione sufficiente a confutarne le tesi, perché si tratta, a suo avviso, di un chiaro caso di “mass self-deception”: “Se venire all’esistenza è un danno così grande come ho suggerito, e se questo è un pesante fardello psicologico da sopportare, allora è molto probabile che tutti noi si sia impegnati in una sorta di auto illusione di massa su come le cose vadano ottimamente per noi. Se è così, allora potrebbe non essere rilevante (...) che la maggior parte delle persone non rimpianga il proprio essere venuto all’esistenza. Disponendo di argomenti forti sulla dannosità della schiavitù, non avremmo considerato l’accettazione da parte degli schiavi del loro asservimento come giustificazione per esso, soprattutto se questa soddisfazione fosse stata spiegabile con qualche meccanismo razionalmente inteso. Se è così, e se venire all’esistenza è un danno grande come ho sostenuto, allora non dovremmo prendere la contentezza diffusa della propria venuta all’esistenza come una giustificazione per avere figli.” (100-1)

Benatar ed il politically correct.

La trattazione di Benatar si svolge abbastanza disinvoltamente sulle ali della sua “Asymmetry” fino a che non si profila all’orizzonte un avversario davvero formidabile: il politically correct. Qui infatti il vero problema che Benatar si trova a fronteggiare non è più di ordine logico o filosofico, ma un ben più corposo problema di opportunità conformistica. Infatti anche il nostro autore - che pure, come s’è visto, non esita a presentare impavido tesi che dire “forti” è proprio il minimo – non ha però la temerarietà di sfidare questo vero e proprio Moloch della cultura contemporanea. Dalle sue argomentazioni infatti qualcuno potrebbe magari dedurre che, prima di optare tout court per la soluzione drastica e definitiva della propria auto-estinzione, l’umanità potrebbe cominciare a praticare magari una sorta di accorta politica eugenetica, e favorire la nascita solo di nuovi bambini in perfette condizioni e impedire quella di individui meno geneticamente normodotati. Ovvero di ampliare e favorire il ricorso all’eutanasia per tutti coloro la cui qualità di vita diventi molto insoddisfacente o venga comunque ritenuta non degna di venir continuata. Se infatti le tesi avanzate da Benatar dimostrano che nessuna vita è degna di essere iniziata, ne dovrebbe conseguire a maggior ragione che certamente alcune vite già esistenti non sono degne di esser continuate.

Ma, come ognuno comprende, il coraggio estremo dell’auto-estinzione della propria carriera accademica, non lo si può chiedere a nessuno. Al giorno d’oggi si può anche parlare dell’eutanasia volontaria per l’intera umanità, ma giammai contravvenire al dogma fondamentale del politicamente corretto e che cioè è assolutamente vietato creare categorie e steccati all’interno del genere umano; quello che Benatar stesso chiama “bigoted judgement that ‘we are okay and you are not’.” (121).
O tutti vivi o tutti morti insomma, ma la responsabilità di scegliere alcuni e di condannare altri è un assoluto tabù, pena l’immediata lettera pubblica di protesta di questa o quella associazione, o peggio. E infatti anche Benatar si affretta a sottolineare questo punto essenziale: egli non intende comparare in nessun caso due esistenze attuali, né di uno stesso individuo (che per esempio passi da uno stato di salute ad uno di grave sofferenza), né tantomeno fra due esistenze di individui distinti e in differenti condizioni di salute; egli semplicemente mette a paragone l’esistenza attuale - quale che essa sia - e la non-esistenza nel senso del non esser mai nato: “Mettere a confronto l’esistenza di qualcuno con la sua non-esistenza - non vuol dire mettere a confronto due possibili condizioni di quella persona. Significa invece comparare la sua esistenza con uno stato delle cose alternativo in cui non sia per nulla esistente.” (p. 22) E ancora: “Una vita ‘degna di continuare’ ed una ‘non degna di continuare’ sono giudizi che si possono fare in relazione ad una persona attualmente esistente. Una vita ‘degna di essere iniziata’ ed una vita ‘non degna di essere iniziata’ sono giudizi che si possono fare in relazione ad un essere potenziale ma non esistente.” (ivi) Con questo, ben lo si vede, Benatar si mette a posto, e non ha che da temere le improbabili proteste di qualche associazione di esseri potenziali.

Dunque anche per i disabili più gravi non può essere fatta alcuna discriminazione particolare ed anche la loro vita, dunque, può essere degna di venir continuata. Benatar a questo proposito afferma con forza che non solo la sua posizione non discrimina i disabili, ma anzi ne riafferma sorprendentemente la parità con i normodotati, in quanto tutti - in modo assolutamente egualitario - avrebbero fatto assai meglio a non nascere affatto: “Gli argomenti che ho proposto (...) hanno dimostrato che tutte le vite reali sono molto peggiori di quanto si pensi, e che nessuna di esse era degna di essere iniziata. Si ricorda che, secondo l’argomento ‘espressivista’, i tentativi per evitare la nascita di persone con disabilità partono dal punto di vista offensivo che tali persone non dovrebbero esserci e che le loro vite non sono degne di essere iniziate. In un certo senso la mia conclusione estende semplicemente la portata del messaggio ‘offensivo’, applicandolo a tutte le persone. Così mi unisco agli oppositori dell’argomento espressivista nell’affermare che in effetti la vita dei disabili non è degna di essere iniziata, ma lo faccio in un modo che non sarà gradito a siffatti oppositori. E questo perché io affermo che ‘ogni’ vita è non degna di essere iniziata. Curiosamente, allora, questo può rendere la mia tesi meno offensiva piuttosto che più offensiva per coloro che difendono i diritti dei disabili. Se questo sia o meno dipenderà dal fatto che l’offesa o l’insulto di un simile messaggio riposi sull’evidente comodo, escludente o bigotto giudizio secondo cui ‘noi siamo a posto e voi no’. Se è questo realmente il suo tratto offensivo, allora il mio punto di vista, se anche arriva a dire che le vite che non sono degne di essere iniziate sono in numero maggiore, sarà meno offensivo per le persone con disabilità. E questo perché io mi sto riferendo non già alle loro vite soltanto, ma a quelle di tutti, me stesso compreso.” (120-1).

La ragione per cui se ogni esistenza, nessuna esclusa, avrebbe fatto meglio a non iniziare mai, ma nessuna esistenza vivente è di per sé indegna di esser continuata, deriva per Benatar dal fatto che chi è già nato, per quanto possa essere infelice e sfortunato, è comunque compreso in una complessa rete attuale di relazioni, la quale rende sempre impossibile stabilire in termini utilitaristici se la sua vita sia o meno degna di essere continuata. Per esempio un disabile anche grave può essere la ragione di vita di altre persone, per esempio i genitori che gli si sono dedicati, e quindi la sua soppressione potrebbe aggravare anziché diminuire il complessivo bilancio edonistico dolore/gioia.

Così l’autore – che ha come suo parametro generale quello di tipo utilitaristico di tradizione anglosassone secondo cui la moralità è un semplice calcolo algebrico fra costi e benefici – non ritiene mai che per un essere vivente reale possa darsi un teorema così rigoroso e netto come quello che egli propone per i mai venuti all’esistenza. Per questo l’autore, pur affermando recisamente che nessuna vita umana vale la pena d’esser portata ad esistenza, -non- afferma che per conseguenza le vite umane reali non valgono la pena di essere continuate.

Alcune conseguenze sorprendenti.

Messosi al riparo da questo lato, Benatar può ritornare a trarre legittimamente tutte le inesorabili conseguenze logiche che gli sembrano derivare dall’“Argumentum mirabile” dell’asimmetria fra coloro che esistono realmente e coloro che non sono mai venuti all’esistenza. La preferibilità logicamente dimostrata della superiorità della condizione dei secondi è tale che egli non esita ad ipotizzare che quello di non venire all’esistenza potrebbe essere considerato un vero e proprio diritto da non violare. E questo anche se egli stesso deve ammettere che si tratterebbe di uno “special kind of Right”, cioè un diritto che ha un portatore solo “in the breach”, cioè a seguito della sua violazione; se infatti non c’è violazione del diritto e quindi generazione, non c’è nemmeno alcun essere che possa eventualmente rivalersi per la violazione del suo diritto. Fatto sta che Benatar giunge alla fine anche a discutere se possa essere considerato tout court immorale, e quindi anche illegale, il generare figli. Le sue argomentazioni su questo punto sfiorano sinceramente – a mio avviso – il paradosso ed anche il grottesco. Ma chi conosce certa filosofia analitica sa che, una volta avviato l’ingranaggio delle deduzioni per via logica, o pretesa tale, non c’è più spazio per il buon senso.

Così Benatar discute gravemente se possa essere il caso di introdurre l’obbligo legale di non avere figli in conseguenza della sua dimostrazione che avere figli è moralmente riprovevole: “Il conflitto tra il dovere di non avere figli e di un preteso diritto ad averne è brutale e inevitabile, laddove il diritto in questione è un dovere morale (assumendo, come me, che il dovere non di procreare è di carattere morale). Se avere figli è moralmente sbagliato e vi è quindi un dovere morale a non avere figli, allora non ci può essere alcun diritto morale di avere figli. Tuttavia, questo lascia aperta la questione se la legge dovrebbe comunque concedere il diritto ad avere figli. Avere figli può essere moralmente sbagliato, ma potrebbe ancora darsi il caso che fosse consentito legalmente di compiere questa colpa. Una delle caratteristiche distintive di un diritto legale è che permette a qualcuno la libertà di fare ciò che può essere, o essere considerato, come sbagliato.

Un diritto legale alla libertà di espressione, per esempio, esiste non tanto per garantire la libertà di parola a chi se ne serve per dire cose buone e sagge, ma piuttosto per proteggere il diritto di coloro che eventualmente ne fanno un uso malvagio o stupido. Si può cioè pensare che qualcun altro possa avere il avere il diritto legale di dire e fare anche delle cose che personalmente si ritengono sbagliate. Questo, tuttavia, non è sufficiente di per sé a dimostrare che ci dovrebbe essere un diritto legale alla libertà procreativa, perché ci sono molti delitti per i quali non ci potrebbe essere alcun diritto. Per esempio, non c’è dovrebbe essere un diritto legale di uccidere, rubare, o aggredire.

La domanda, allora, è se il portare dei figli all’esistenza sia o no il tipo di errore che possa essere giuridicamente tutelato.”
(103). E ancora: “Poiché non vi è alcuna ragione intrinseca per cui dovremmo trattare danni causati dalla riproduzione in modo diverso da danni comparabili causati in altri modi, dobbiamo essere pronti a riconcepire i limiti della libertà riproduttiva.” (112).

Fortunatamente Benatar non è definitivamente assertorio su questo singolare punto e precisa che “coloro che accettano che venire all’esistenza è un grande danno e che ci sia il dovere di non procreare nei casi in cui la prole potrebbe subire gravi sofferenze in vita - deve allora accettare che il non procreare inteso come dovere non è una richiesta eccessiva. Se tuttavia mi sbaglio a questo proposito e l’avere figli non è definibile come immorale, i miei argomenti (...) mostrano, per lo meno, che il non avere figli è preferibile.” E conclude come sempre ricorrendo all’argomento dell’’asimmetria’: “se anche potessimo pensare che la nostra prole potenziale non avrebbe rimpianto l’esser venuta all’esistenza, di certo essa non potrà dolersi di non essere venuta all’esistenza.” (101-2).

Il vero ostacolo, precisa l’autore, è che la promulgazione di una legge moralizzatrice del costume volta ad impedire tout court di avere figli, porterebbe sicuramente danni gravi perché non riuscendo certamente ad evitare la copulazione, si troverebbe di fronte ad una sicura diffusione di gravidanze e nascite clandestine: “…il divieto procreativo semplicemente non funzionerebbe. La gente troverebbe il modo di infrangere la legge. Per farla rispettare, anche parzialmente e in modo non uniforme, lo Stato dovrebbe impegnarsi in attività di polizia altamente intrusive e nelle violazioni della privacy che ne deriverebbero. Essendo assai plausibile che il che coito in sè non sarebbe e non potrebbe essere impedito efficacemente, lo stato dovrebbe essere in grado di distinguere tra quelli, da un lato, che hanno concepito volontariamente o preterintenzionalmente e quelli, invece, che hanno concepito colposamente. In entrambi i casi, lo Stato dovrebbe comunque imporre l’aborto. Nel caso di rifiuto, questo richiederebbe la restrizione della libertà personale e l'imposizione di aborti obbligati. Questa minaccia porterebbe molto probabilmente a gravidanze clandestine, con donne che avrebbero gestazioni e parti nascosti. Questo, a sua volta, porterebbe molto probabilmente all’aumento delle malattie e delle morti connesse alla gravidanza ed al parto. Questo tipi di costi morali sono grandissimi e accreditano fortemente il dubbio che essi non sarebbero compensati dai benefici. Ciò è particolarmente vero dato che i benefici sarebbero improbabili da ottenere, dato che tanto la procreazione non sarebbe comunque fermata da un divieto.”(106)

Benatar quindi scarta questo scenario, e riconosce che - almeno per ora - non è ancora il caso di proibire per legge la procreazione: “Questo rimandare l’abolizione del diritto a procreare può essere deplorevole, ma meno deplorevole dell’alternativa di una sua prematura abolizione.” (111). Non rinuncia però ad una piccata precisazione in nota: “Il fatto che nessuno stato si porrà il problema se sia il caso di proibire a tutti la procreazione, non significa comunque che la questione non sia degna di considerazione. Ci potranno anche essere tutti i tipi di motivazioni psicologiche, sociologiche e politiche per ritenere che la procreazione di figli non sarà mai proibita per legge in nessuno stato; ma da questo non consegue che tali posizioni siano filosoficamente fondate.” (105n.). E d’altronde – scrive l’autore - si possono immaginare anche scenari che raggiungano lo stesso scopo in modo meno traumatico: “Noi possiamo certamente immaginare una società in cui la non-procreazione potrebbe essere ampiamente (anche se non universalmente) assicurata, senza il ricorso alle invasioni della privacy e alle costrizioni fisiche sopra descritte. Questo si potrebbe ottenere se un’innocua e altamente efficace sostanza contraccettiva potesse essere ampiamente somministrata anche all’insaputa della popolazione e senza il consenso dei singoli individui - nell'acqua da bere, per esempio, o attraverso un’irrorazione tramite mezzi aerei. Uno stato in cui questo fosse fatto, eviterebbe così la terribile immagine orwelliana di controlli, sterilizzazioni, aborti forzati, e così via. Naturalmente, l'autonomia personale sarebbe ancora violata, ma questo, abbiamo già visto, non è sufficiente per dimostrare il diritto legale di generare figli.” (107)

In ogni caso, però, anche se non abolito, resta inteso che il diritto alla procreazione non è che un “negative right”. Nella legislazione auspicata se non si è impediti a generare un figlio, lo si dovrebbe però fare a proprio costo e pericolo, senza alcuna pretesa all’aiuto da parte di chicchessia: “Ciò che dovrebbe esserci è un diritto negativo alla libertà riproduttiva, con l’esclusione quindi di interventi statali o d’altra natura a favore degli sforzi di una persona di ottenere aiuto per la propria infertilità o con la disponibilità di altri a fornire tale aiuto. Questo non significa che gli specialisti di problemi di infertilità non sbaglino comunque nel contribuire a portare nuove persone all’esistenza. Significa solo che non gli dovrebbe essere negata la libertà legale di farlo. Tale libertà è derivata dal diritto negativo dei loro pazienti alla libertà riproduttiva. Tuttavia, un semplice diritto legale negativo a non essere impedito a richiedere assistenza nella riproduzione non fonda un diritto legale o morale positivo a tale assistenza. Né sembra che un tale diritto possa esser motivato in qualsiasi altro modo se i miei argomenti sono sensati. Così le persone non dovrebbero essere in condizione di esigere, come proprio diritto, che un medico con le competenze necessarie fornisca loro assistenza nel portare nuove persone all’esistenza. Né si possono richiedere allo Stato risorse per tali servizi o per la ricerca di base. Lo Stato non dovrebbe fornire tali risorse. Anche qualora esse non fossero limitate, lo stato non dovrebbe aiutare a far del male. E dove le risorse sono limitate, esse dovrebbero essere dedicate a prevenire e alleviare il danno, piuttosto che a causarlo.” (128).

Anche sulla questione dell’aborto, Benatar cammina sul filo tortuoso delle cautele e dell’equivoco: riconosce sia la libertà di abortire, sia quella di non farlo; sostiene che l’aborto è una scelta più delicata rispetto al non concepire, però afferma che per non abortire per principio non vi è alcuna ragione valida: “La mia tesi non è stata semplicemente che le donne incinte hanno diritto ad avere un aborto (nelle prime fasi della gestazione). Ho sostenuto l'affermazione più forte che l'aborto (durante queste fasi) sarebbe preferibile al portare a termine la gravidanza. Questo però non equivale a sostenere che dovrebbero esser praticati aborti forzati sulle donne. (...) almeno per ora, dobbiamo riconoscere un diritto legale alla libertà riproduttiva. Queste argomentazioni valgono altrettanto (se non di più) rispetto alla libertà di non abortire che a quella di concepire. Quindi le mie conclusioni dovrebbero essere considerate come raccomandazioni su come una donna incinta dovrebbe avvalersi della libertà di scegliere se abortire o meno. Io sto raccomandando che lei abortisca ovvero che abbia un’ottima ragione per non farlo. Dovrebbe essere chiaro che io non credo che ci possano essere di tali ragioni.” (161-2).

Infine Benatar giunge alla sua tesi finale: l’auspicabile autoestinzione del genere umano e, ancor meglio, di ogni vita senziente sulla terra: “non c'è nulla di spiacevole su un futuro stato in cui non ci sono più esseri umani. Piuttosto il problema demografico che, credo, rappresenta la sfida maggiore è il percorso attraverso il quale avviene l’estinzione piuttosto che l'estinzione stessa.” (183). L’unica cautela che infatti egli riconosce sensata è che nel praticare una siffatta scelta si abbia prudenza a causare minori sofferenze possibili; è infatti evidente che se si fermasse repentinamente la nascita di nuovi individui, gli esseri umani attualmente esistenti nel loro progressivo invecchiamento andrebbero incontro a gravi sofferenze dovute alla mancanza di assistenza e di risorse. Quindi il bilancio edonistico sul momento si aggraverebbe. Per conseguenza anche l’autoestinzione dovrebbe essere fatta piuttosto gradualmente, e dando comunque per scontato che gli ultimi a morire saranno inevitabilmente molto danneggiati. Ma, precisa, questa sofferenza degli ultimi uomini non ha alternative moralmente accettabili, in quanto non si può sacrificare il bene di alcuni individui, portandoli all’esistenza, per tutelare la condizione di quelli che già sono in vita, così come non si può obbligare nessuno ad espiantarsi un organo se anche in tal modo dovesse salvare la vita altrui: “un diritto o indirizzo deontologico può affermare che alcuni danni sono così gravi che non possono essere inflitti anche se il non farlo porterebbe un danno ancora maggiore ad altri. Su tale base, per esempio, sarebbe sbagliato rimuovere un rene sano ad un individuo contro la sua volontà anche se il danno ad un potenziale destinatario del non fare il trapianto sarebbe superiore al danno inflitto al donatore non consenziente. (...) Se c'è un diritto a non essere portati all’esistenza, un diritto che ha un portatore solo quando viene violata, allora si può sostenere che sarebbe sbagliato far nascere nuove persone, anche se questo ridurrebbe le sofferenze di persone attualmente esistenti. Coloro che sono perplessi ad attribuire, ad esseri inesistenti, il diritto a non essere portati all’esistenza, potranno pensare piuttosto in termini di dovere [scil. da parte delle persone esistenti] di non portare nuove persone all’esistenza. (...) Secondo questo punto di vista deontologico, vi è il dovere di non portare nuove persone all’esistenza che non può essere violato, anche se così facendo il danno provocato sarebbe inferiore a quello subito da persone esistenti, in assenza di nuove persone. (...) Quando i diritti o i doveri sono assoluti, non importa quanto danno possa esservi in più per le persone già esistenti.” (190-1).

Per conseguenza, visto che l’estinzione dell’umanità avverrà comunque, è sempre meglio anticiparla, evitando le sofferenze di tutte le generazioni che non facciamo nascere: “In qualunque modo l'umanità giungerà al termine, ci saranno gravi costi per gli ultimi uomini. Essi saranno uccisi o dovranno languire per le conseguenze del calo della popolazione e il crollo delle infrastrutture sociali. A parità di effetti, non si guadagna nulla se questo accade più tardi. Si verificherà la medesima sofferenza. C’è tuttavia un costo che non deve essere pagato se l'estinzione avviene prima, il costo per le nuove generazioni intermedie, quelle che esistono tra la generazione attuale e quella finale. In tal modo è forte l’opzione per un’estinzione anticipata. (...) possiamo dire che l'estinzione nel giro di poche generazioni è preferibile all'estinzione solo dopo innumerevoli altre generazioni. Un'estinzione anticipata potrebbe essere peggiore per alcune persone in particolare, ma non ne consegue che sarebbe peggiore nel calcolo complessivo.” (198).

In conseguenza di tutto ciò, pur riconoscendo l’esistenza di grandi danni accessori, la prospettiva dell’autoestinzione appare a Benatar globalmente consolatoria: “Non starò qui a mettere a confronto le diverse idee su quando l’estinzione dell’umanità si verificherà. Noi sappiamo che si verificherà e questo fatto ha un paradossale effetto sul mio argomento. In uno strano modo lo trasforma in un argomento ‘ottimista’. Sebbene le cose attualmente non sono come dovrebbero – cioè ‘esistono’ delle persone, quando non ne dovrebbe esistere nessuna – tuttavia le cose un giorno andranno come dovrebbero – cioè non vi saranno più esseri umani. In altre parole, sebbene la situazione attuale sia negativa, essa diventerà migliore, quand’anche essa peggiori con la creazione di nuovi individui. Forse qualcuno vorrebbe risparmiarsi un tale tipo di ottimismo, ma qualche ottimista può trovare una ragione di conforto in questa osservazione.” (195).

----------------------------------------------------------

A conclusione di questa rapida scorsa del testo di Benatar, non voglio assolutamente discutere nel complesso le sue idee, né il loro realismo, né le conseguenze politiche, né tantomeno mettermi a strologare se la vita sia o meno degna di essere vissuta. Dovrei farlo secondo le mie personali idee, che varrebbero esattamente come quelle che un eventuale lettore già ha per conto suo. Ma Paolo stesso ha accennato al seguito che Benatar sta avendo sulle nuove generazioni e quindi, se qualche studente di passaggio leggesse mai queste righe, vorrò semplicemente suggerirgli quali ulteriori letture – secondo il mio particolare e limitato punto di vista – potrebbe fare per approfondire questo tipo di argomenti.

A mio avviso il punto d’attacco dell’apparente linearità dell’argomentare di Benatar è uno solo: il ruolo dell’Io individuale. Quello che infatti l’autore non chiarisce mai, perché evidentemente dà per scontato, è che il criterio morale da utilizzare debba essere di tipo utilitaristico su base strettamente individuale: ciò che conta nella nostra dimensione morale sono piacere e dolore come li prova il singolo Io individuale. Null’altro. Si fa dunque la somma algebrica dei due e si calcola se una determinata situazione è da accettare o da respingere. Tutto quindi viene soppesato in base al piacere o al dolore che proviamo e l’intera nostra deliberazione su come agire si basa su quel parametro. Ciò che ci dà piacere può esistere, ciò che ci dà dolore deve sparire. E se il risultato di questo calcolo alla fine ci dovesse dare per necessità logica un risultato sempre negativo – come dimostra secondo Benatar l’”argomento dell’asimmetria” - allora saremmo legittimati a rifiutare l’intero contesto della nostra esistenza e addirittura a praticare l’autoestinzione del genere umano.

Con ciò ci troviamo davvero di fronte ad un’impostazione che appare assolutamente tipica del nostro attuale contesto socio-politico, quello che certa pubblicistica ha polemicamente bollato come “consumistico” o “edonistico”.

Rispetto a questi problemi, un’ulteriore discussione dovrebbe a mio avviso percorrere due linee: da un lato rifarsi ad alcune correnti di filosofia politica tedesca, ed innanzitutto ad Hegel. Dall’altro dovrebbe affrontare con ben diverso approfondimento la tematica biologica del neodarwinismo. In entrambi i filoni, apparentemente così remoti, la questione del ruolo dell’individuo ha una posizione centrale.
In un prossimo post vorrei seguire questi due percorsi e, se mi riesce, incrociarli.

Guido.

Edited by Guidodep - 31/7/2018, 23:44
 
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Carmine Migliaccio1
view post Posted on 2/7/2017, 05:18




CITAZIONE
Tutto quindi viene soppesato in base al piacere o al dolore che proviamo e l’intera nostra deliberazione su come agire si basa su quel parametro. Ciò che ci dà piacere può esistere, ciò che ci dà dolore deve sparire.

Scusa, ma no. Qui si tratta di quello che facciamo a qualcun altro. Se fosse come dici tu, fare figli sarebbe perfettamente lecito dal punto di vista di chi li desidera.

La tesi è molto semplice: dare piacere a qualcuno è moralmente accettabile, mentre dare dolore a qualcuno, soprattutto senza il suo consenso, è moralmente inaccettabile. Non essendoci vita senza dolore, mettere al mondo un nuovo essere umano è immorale, soprattutto perché non c'è consenso.

Nella vita c'è piacere e c'è dolore. Se non ti mettono al mondo, non devi subire il dolore e non hai bisogno del piacere, dunque non può esserci condizione migliore del non essere mai "nati".

Edited by Carmine Migliaccio1 - 2/7/2017, 08:52
 
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view post Posted on 7/7/2017, 10:53
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CITAZIONE (Carmine Migliaccio1 @ 2/7/2017, 06:18) 
CITAZIONE
Tutto quindi viene soppesato in base al piacere o al dolore che proviamo e l’intera nostra deliberazione su come agire si basa su quel parametro. Ciò che ci dà piacere può esistere, ciò che ci dà dolore deve sparire.

Scusa, ma no. Qui si tratta di quello che facciamo a qualcun altro. Se fosse come dici tu, fare figli sarebbe perfettamente lecito dal punto di vista di chi li desidera.

La tesi è molto semplice: dare piacere a qualcuno è moralmente accettabile, mentre dare dolore a qualcuno, soprattutto senza il suo consenso, è moralmente inaccettabile. Non essendoci vita senza dolore, mettere al mondo un nuovo essere umano è immorale, soprattutto perché non c'è consenso.

Nella vita c'è piacere e c'è dolore. Se non ti mettono al mondo, non devi subire il dolore e non hai bisogno del piacere, dunque non può esserci condizione migliore del non essere mai "nati".

Ho usato la prima persona plurale in senso impersonale. Riscrivo più chiaramente: "Tutto viene soppesato in base al piacere o al dolore che prova il singolo individuo e l’intera nostra deliberazione su come agire si basa su quel parametro. Ciò che dà piacere al singolo individuo può esistere, ciò che gli dà dolore deve sparire."

Detto in altre parole, io personalmente - magari sbaglierò - penso che uno dei segni più seri di degenerazione del nostro tempo sia proprio l'idea che tutto dev'essere subordinato al piacere ed al benessere dei singoli individui in quanto tali. Io in questo sono hegeliano: la nostra vita e quella dei nostri figli non è finalizzata unicamente al "piacere" mio, tuo o di chicchessia, ma ha anche un valore sociale, comunitario, cioè "storico". La storia non è fatta dalle vicende del nostro benessere materiale - com'è per tutti gli altri animali - ma da quelle dei grandi soggetti collettivi.
...Ma mi rendo conto che questo mio modo di vedere è totalmente fuori dal tempo. Oramai tutto ruota attorno al nostro ombelico e i centri commerciali sono l'emblema metafisico della nostra visione del mondo. Il resto è indifferente

Mi permetto di citare un passo di Fukuyama per chiudere, e ti ringrazio per il tuo intervento:

"La fine della storia significherebbe così anche la fine delle guerre e delle rivoluzioni sanguinose. Essendo d'accordo sui fini, gli uomini non avrebbero più grandi cause per cui combattere. Essi soddisferebbero i loro bisogni attraverso l'attività economica, ma non dovrebbero più rischiare la vita in battaglia. In altre parole, essi diventerebbero di nuovo degli animali, come lo erano prima della lotta a sangue che dette inizio alla storia. Un cane, pur di avere da mangiare, è felicissimo di starsene tutto il giorno al sole per il semplice motivo che non è scontento di essere quello che è. E non si preoccupa che altri cani facciano meglio di lui, o che la sua carriera di cane ristagni, e tanto meno che in qualche lontana parte del mondo ci siano dei cani che vengono oppressi. Se l'uomo riesce a creare una società in cui sia abolita l'ingiustizia, la sua vita finirà con l'assomigliare a quella di un cane."
 
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mora
view post Posted on 11/7/2018, 18:17




Scusa se non ho letto tutto.

Siamo individui ed è normale che pensiamo a noi ed è nella nostra natura ricercare il nostro benessere e cercare di sfuggire al dolore.

Il fatto di non fare figli, per non rischiare con la vita di un altro, senza il suo consenso, per dargli come certezza unica la morte, mi pare però rifugga l'egoismo e l'istinto di averli (tutto può essere egoismo ma dipende dal tipo di egoismo).

Se non se ne fanno, non significa non si possa cercare di far bene per coloro che già ci sono o ci saranno, in tanti modi. I figli si fanno per assecondare il proprio desiderio, per darsi una cosa bella. E avendoli si ha anche meno tempo per aiutare chi già c'è.
Se si pensa di fare figli perché magari faranno loro del bene, ci si dimentica che è probabile invece facciano male in vari modi, che inquinino pure, che ci tolgano tempo per aiutare noi altri bisognosi, che non è giusto comunque mettere in mezzo un altro probabile sofferente e sicuro morente per il mondo, senza consenso, come se la specie dovesse andare avanti per forza.

So che ci sono tante obiezioni all'antinatalismo, obiezioni che non condivido, ma mi pare l'opposto di essere un animale che si riproduce per istinto, perché sì, perché non si concepisce il non esistere.
Non c'è un motivo razionale per il quale la specie debba continuare. Se continua è a furia di sofferenza, soprattuto per una parte di persone.

Inoltre, è vero che oggi si pensa di più per esempio al concetto di libertà, di tempo libero, di minore sofferenza ma non credo sia sbagliato. Significa pensare alle persone.

E dubito, per quanto si possa migliorare la vita, che sarà mai troppo facile e senza male. Sempre lotta per sopravvivere e poi morire.
 
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mora2
view post Posted on 12/7/2018, 09:40




In aggiunta, non credo siano necessarie migliaia di pagine per arrivare al punto di una questione. Credo basti la sofferenza non voluta di una sola persona per rendere ingiusto (eufemismo) il mondo.
Nel tempo, non solo persone sconosciute hanno espresso queste idee ma anche personaggi in ogni epoca, e non tutti sono conosciuti per questo. Sono noti per altro ma hanno manifestato argomentazioni simili.
Credo ci sia buona fede nel fare i figli, in genere, e forse non credo neanche al libero arbitrio, ma penso che sia spesso una cosa data per scontata e su cui non si vuole riflettere.

Non condivido tutto quello che dice Benatar, né ho letto il suo libro, ma sono molto familiare generalmente con gran parte di quello ho letto e ascoltato di lui e di altri.

Edited by mora2 - 12/7/2018, 11:44
 
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mora3
view post Posted on 12/7/2018, 19:31




Con più tempo ho riletto meglio.

Sul seguito che avrebbe Benatar comunque avrei dei dubbi. Non sarà mai, credo, un pensiero predominante e se qualcuno ne è influenzato, secondo me, è perché già aveva in nuce quelle idee seppure non le aveva ancora analizzate e radicate.
Con internet ovviamente chi ha idee impopolari può adesso trovare un pochino più facilmente persone con opinioni simili e oggi è un poco più accettabile mettere in discussione cose date per giuste ma immagino che l'influenza del filosofo sarà comunque limitata.
 
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view post Posted on 21/7/2018, 22:54
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CITAZIONE (mora3 @ 12/7/2018, 20:31) 
Con più tempo ho riletto meglio.

Sul seguito che avrebbe Benatar comunque avrei dei dubbi. Non sarà mai, credo, un pensiero predominante e se qualcuno ne è influenzato, secondo me, è perché già aveva in nuce quelle idee seppure non le aveva ancora analizzate e radicate.
Con internet ovviamente chi ha idee impopolari può adesso trovare un pochino più facilmente persone con opinioni simili e oggi è un poco più accettabile mettere in discussione cose date per giuste ma immagino che l'influenza del filosofo sarà comunque limitata.

Ciao Mora, ti ringrazio per il tuo commento.

Anche se su questioni del genere la discussione è piuttosto difficile, se non impossibile, perché vengono coinvolte le proprie scelte filosofiche di fondo. Per me, per esempio, la categoria dell'individuo singolo è pressoché priva di valore. L'individuo come tale è un'entità fragile, inconsistente, destinata a durare per un tempo brevissimo. Quel che gli "piace" o lo fa "soffrire" è di fatto privo di qualsivoglia importanza oggettiva. E lo stesso Benatar lo dimostra: se ci concepiamo solo come un ammasso di singoli individui, allora veramente non c'è motivo che noi si esista. Siamo un ammasso di cose inutili, e basta. Tanto vale che ci estinguiamo.
Ma la vita della natura e la storia dell'uomo non sono solo una successione di futili vicende individuali, ma hanno una loro continuità, un loro sviluppo e anche una loro grandiosità. Guardandosi come parte di un tutto - per esempio come parte di una tradizione culturale - anche l'individuo singolo può dare un qualche valore alla propria vita, che altrimenti si ridurrebbe veramente solo ad una miserabile ricerca di piacere.
Ma, lo ammetto, questa è solo la mia opinione, la mia scelta di valore. Posso dire soltanto che è quanto mi consente di vedere qualcosa quando mi metto davanti ad uno specchio. E di non invidiare chi nella propria vita ha solo ed esclusivamente curato la propria incommensurabile futilità.

Ciao, e grazie ancora.
 
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mora4
view post Posted on 23/7/2018, 14:55




Grazie a te per i commenti interessanti, è sempre bene confrontarsi.
 
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Seima
view post Posted on 30/7/2018, 17:41




CITAZIONE (Guidodep @ 21/7/2018, 23:54) 
CITAZIONE (mora3 @ 12/7/2018, 20:31) 
Con più tempo ho riletto meglio.

Sul seguito che avrebbe Benatar comunque avrei dei dubbi. Non sarà mai, credo, un pensiero predominante e se qualcuno ne è influenzato, secondo me, è perché già aveva in nuce quelle idee seppure non le aveva ancora analizzate e radicate.
Con internet ovviamente chi ha idee impopolari può adesso trovare un pochino più facilmente persone con opinioni simili e oggi è un poco più accettabile mettere in discussione cose date per giuste ma immagino che l'influenza del filosofo sarà comunque limitata.

Ciao Mora, ti ringrazio per il tuo commento.

Anche se su questioni del genere la discussione è piuttosto difficile, se non impossibile, perché vengono coinvolte le proprie scelte filosofiche di fondo. Per me, per esempio, la categoria dell'individuo singolo è pressoché priva di valore. L'individuo come tale è un'entità fragile, inconsistente, destinata a durare per un tempo brevissimo. Quel che gli "piace" o lo fa "soffrire" è di fatto privo di qualsivoglia importanza oggettiva. E lo stesso Benatar lo dimostra: se ci concepiamo solo come un ammasso di singoli individui, allora veramente non c'è motivo che noi si esista. Siamo un ammasso di cose inutili, e basta. Tanto vale che ci estinguiamo.
Ma la vita della natura e la storia dell'uomo non sono solo una successione di futili vicende individuali, ma hanno una loro continuità, un loro sviluppo e anche una loro grandiosità. Guardandosi come parte di un tutto - per esempio come parte di una tradizione culturale - anche l'individuo singolo può dare un qualche valore alla propria vita, che altrimenti si ridurrebbe veramente solo ad una miserabile ricerca di piacere.
Ma, lo ammetto, questa è solo la mia opinione, la mia scelta di valore. Posso dire soltanto che è quanto mi consente di vedere qualcosa quando mi metto davanti ad uno specchio. E di non invidiare chi nella propria vita ha solo ed esclusivamente curato la propria incommensurabile futilità.

Ciao, e grazie ancora.

Mi dispiace inquinare le tue riflessioni con il mio disincanto, ma quando vuoi vedere qualcosa davanti allo specchio, quello è soltanto il tuo Ego che reclama soddisfazione (Io conto! Io valgo!), proprio perché atterrito dall'eventualità di una reale presa di coscienza della propria fondamentale inutilità. Siamo solo funzionari della Specie. Burattini nelle mani della nostra padrona che ha cieca volontà di vivere, e per continuare ad esistere ha bisogno di un continuo ricambio dei suoi membri (ergo riproduzione, ergo il sesso é bello e i bambini ci fanno tenerezza). Proprio come fanno i batteri. Si, noi siamo più complessi, ma i momenti decisivi dell'esistenza sono analogamente nascita, riproduzione, morte. Il fatto che poi a differenza dei batteri noi scriviamo poesie e mandiamo razzi nello spazio non cambia di una virgola la sostanza, la natura profonda del nostro esistere. E così va avanti una saga dell'assurdo poggiata su fondamenta insanguinate.


Ovviamente concordo appieno con quanto scritto da Carmine e da Mora.

Ah, anche collettivamente e "storicamente" siamo lo stesso insignificanti. Agiamo come gruppo e come società sempre in nome della finalità precisa che é insita nella programmazione biologica (la società serve ad aumentare le chances di sopravvivenza, sopravvivenza che é finalizzata alla riproduzione - guarda come degenera un organismo quando finisce l'età fertile e a madre natura non gliene importa più niente di te; é ancor più evidente nelle donne, vedi il ruolo protettivo degli estrogeni verso osteoporosi, depressione, patologie cardiovascolari).
 
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Seima
view post Posted on 30/7/2018, 18:04




Aggiungo poi un'altra cosa, andando al sodo: quando vedo un ragazzo, anche uno solo, affetto da una grave sindrome neurologica - tanto per fare un esempio - di quelle che ti costringono a carrozzina e respiratore a quindici-vent'anni, tutte le belle chiacchiere sulla grandiosità della storia umana (che finirà comunque in polvere, ricordiamolo) vanno a farsi definitivamente benedire e non posso far altro che pensare che quello scempio doveva essere evitato a tutti i costi.
É questione di essere compassionevoli alla fin fine.
Ben venga Benatar, come altri, a dirci che estinzione per estinzione, sarebbe meglio sbrigarsi prima di infliggere altro dolore a moltitudini di individui.
 
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view post Posted on 31/7/2018, 23:35
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[/QUOTE]
Mi dispiace inquinare le tue riflessioni con il mio disincanto, ma quando vuoi vedere qualcosa davanti allo specchio, quello è soltanto il tuo Ego che reclama soddisfazione (Io conto! Io valgo!), proprio perché atterrito dall'eventualità di una reale presa di coscienza della propria fondamentale inutilità. [/QUOTE]


Ma guarda è esattamente l’opposto, se ben ci rifletti. Spesso a cadere nel disincanto sono proprio coloro non sanno ancora rassegnarsi al fatto che il loro Io individuale è sostanzialmente privo di valore. Ancora se ne crucciano, al punto di negare senso e valore anche all’immenso universo quant’è grande, se dev’essere privo di senso il loro minuscolo Io.

Il problema però è che non è scritto da nessuna parte che il singolo individuo umano – in quanto tale - debba avere un valore oggettivo particolare. Magari ha un qualche significato solo ed esclusivamente come parte di un fenomeno più grande.

Certamente qualcuno obbietterà che non solo gli individui, ma anche i soggetti collettivi, la storia, e la stessa vita terrestre sono fenomeni destinati a svanire, e quindi anch'essi senza valore.

Su questo ho qualche dubbio. Quale sia il significato della vita nell'ambito delle leggi della fisica è ancora tutto da chiarire. Come è anche oggettivamente sorprendente lo sviluppo dell’intelligenza nell’ambito della vita.
Quella leggera muffa che si è formata sulla superficie di un granellino di polvere, e che chiamiamo umanità, s'è pur fatta specchio dell'universo, riuscendo a comprenderne le leggi e la storia, scrutando con incredibile ingegno nei recessi del tempo e dello spazio. Proprio perché si tratta di un fenomeno infinitamente piccolo a fronte dell’universo, questa sua capacità di comprensione è tanto più impressionante ed esaltante. -Oggettivamente- esaltante.
D’altra parte, com’è noto, nell’universo conosciuto il cervello umano è di gran lunga l’oggetto più complesso che esista.

Non scrivo questo – sia chiaro - per introdurre suggestioni religiose o simili sciocchezze, alle quali sono totalmente indifferente. Ma semplicemente per dire che è proprio nel momento in cui smettiamo di riflettere solo sul nostro proprio ombelico di singoli individui, che abbiamo la possibilità ad alzare uno sguardo finalmente libero su ciò che ci circonda.

Di fronte a tutto ciò, i calcolucci da serva di un Benatar su quanto io soffra o non soffra, su quanto io goda o non goda, e se soffro o no più di quanto godo, sono veramente di una miseria etica infinita.
 
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Seima
view post Posted on 1/8/2018, 12:22




Come ho accennato sopra parlando di essere compassionevoli, secondo me il tuo punto vista sulla grandeur dell'esistenza umana (già discutibilissimo: saremo pure la coscienza dell'universo ma nel frattempo ci ammazziamo e ci torturiamo tra noi) non tiene comunque conto della sofferenza, o della percezione della sofferenza, non tua (Benatar non vuole convincere te a odiare la vita), ma dei tuoi prossimi. La vita, in cui veniamo ficcati senza poter esprimere consenso (altro punto fondamentale), tritura molti uomini, basta che apri la finestra e dai uno sguardo in strada per accorgertene. Non potendo prevedere prima cosa toccherà a un nascituro, se salute o malattia, gioia o dolore, é inevitabilmente scelta più responsabile e coscienziosa astenersi dal generare, considerando che nella nostra stessa società, secondo corretta logica, vale il principio etico del primum non nocere.
Se poi tu pensi che valga la pena di causare sofferenza gratuita ad altri miliardi di persone perché il "senso" dell'universo non è chiaro (molti scienziati sostengono che potrebbe benissimo non esserci alcun senso, ma pura casualità) e pensi che uno dei nostri figli o nipoti un giorno potrebbe scoprirlo, beh, non so che dire.
Di fronte al grido disperato di una creatura sofferente per me perde di significato tutto il resto (che, parliamoci chiaro, probabilmente significato non ne ha).
 
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view post Posted on 1/8/2018, 12:59
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CITAZIONE (Seima @ 1/8/2018, 13:22) 
Come ho accennato sopra parlando di essere compassionevoli, secondo me il tuo punto vista sulla grandeur dell'esistenza umana (già discutibilissimo: saremo pure la coscienza dell'universo ma nel frattempo ci ammazziamo e ci torturiamo tra noi) non tiene comunque conto della sofferenza, o della percezione della sofferenza, non tua (Benatar non vuole convincere te a odiare la vita), ma dei tuoi prossimi. La vita, in cui veniamo ficcati senza poter esprimere consenso (altro punto fondamentale), tritura molti uomini, basta che apri la finestra e dai uno sguardo in strada per accorgertene. Non potendo prevedere prima cosa toccherà a un nascituro, se salute o malattia, gioia o dolore, é inevitabilmente scelta più responsabile e coscienziosa astenersi dal generare, considerando che nella nostra stessa società, secondo corretta logica, vale il principio etico del primum non nocere.
Se poi tu pensi che valga la pena di causare sofferenza gratuita ad altri miliardi di persone perché il "senso" dell'universo non è chiaro (molti scienziati sostengono che potrebbe benissimo non esserci alcun senso, ma pura casualità) e pensi che uno dei nostri figli o nipoti un giorno potrebbe scoprirlo, beh, non so che dire.
Di fronte al grido disperato di una creatura sofferente per me perde di significato tutto il resto (che, parliamoci chiaro, probabilmente significato non ne ha).

Ma dài andiamo, un po’ più di modestia intellettuale… Io cerco di comprendere il senso di ciò che mi circonda, e ovviamente sono del tutto impari al compito. Ma tu non cerchi solo di smentire le mie parole – cosa che sarebbe facile e legittima. No, tu pretendi di mettere le tue opzioni morali e i tuoi parametri di sensatezza o insensatezza al di sopra di ciò che semplicemente ‘è’. Ma l’universo che ci circonda non ha bisogno di chiedere autorizzazioni o legittimazioni, perché ha dalla sua un semplice inoppugnabile fatto, quello di ‘essere’. Non è in cerca di un senso, 'è' il senso. Non è lui che deve adeguarsi a te, ma tu a lui.

D'altra parte tutto ha una ragione, e spesso siamo stati anche in grado di comprenderla razionalmente. La vita è anche per lo più sofferenza perché l’adattamento ad un ambiente fisico in continuo cambiamento casuale, può essere realizzato solo con un meccanismo di prove ed errori continui, com’è appunto la selezione darwiniana. E gli errori ovviamente hanno sempre un grave prezzo di sofferenza. Soltanto in questo modo però la vita poteva riuscire ad insediarsi sulla terra tre miliardi di anni fa e poi preservarsi, superando le condizioni più dure e imprevedibili. Anche solo guardare le infinite forme diverse che essa ha assunto nei milioni di anni deve riempire la mente di stupore e ammirazione.

Io di fronte a questo spettacolo grandioso cerco per un attimo di dimenticare le mie piccole miserie individuali. Altri invece in nome delle loro, intendono spegnere questa vita e dichiarare “privo di senso” l’universo. …Chi è più folle?
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Edited by Guidodep - 7/8/2018, 11:21
 
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