Divulgazione e mistificazione del "biologicamente-corretto". Barbujani e le razze umane, 1

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view post Posted on 29/4/2015, 12:02
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Divulgazione e mistificazione del “biologicamente-corretto”



Guido Barbujani e le razze umane. 1.









Proponendoci di contestare ciò che definiamo l’ideologia del “biologicamente-corretto”, in particolare su di un tema assai sensibile come quello delle razze umane, non possiamo non ricordare sin dall’inizio un dato di fatto su cui dovrà convenire chiunque voglia usare anche solo un minimo di ragione e di capacità osservativa. E cioè che una società in cui alcuni individui vengono discriminati e afflitti per la loro appartenenza ad un gruppo particolare - comunque determinato - è una società intrinsecamente e ineluttabilmente infelice.
La suggestione nietzscheana secondo cui, grazie alla voluttà autoassertoria che si gusta nell’opprimere il più debole, ci si innalza ad una non meglio precisata dimensione “superumana”, è – al di là del giudizio morale che se ne dia - storicamente del tutto falsa. E’ un dato di fatto illustrato innumerevoli volte che la discriminazione umilia ed incattivisce non solo chi ne è vittima, ma anche coloro che la teorizzano, che la codificano, che la implementano. Anzi, come ben comprese Hegel, per molti aspetti questi ultimi ancora più dei primi. E mentre discriminazioni di altra natura, come quelle sociali, possono avere avuto in determinate fasi storiche una qualche giustificazione di tipo economico, quella a base razziale contiene in sé un tratto essenzialista che la rende sempre e comunque arbitraria e irricevibile.
E’ dunque assai comprensibile che il carattere di vero e proprio tabù che nella nostra epoca è andato assumendo tutto ciò che anche vagamente si connetta al concetto di razza, nasca innanzitutto dal terrore di imboccare la strada senza ritorno della discriminazione - non solo quella codificata dalle leggi, ma anche quella instaurata dall’abitudine e dal costume.

Accettata questa verità come comune a qualsiasi persona di semplice buon senso e di normale equilibrio emotivo, nondimeno la questione – contrariamente a quanto molti pensano - non ne resta semplificata in nessun modo. Cosa debba venir fatto - in modo concreto ed efficace - per risparmiare alle società del futuro il veleno della discriminazione razziale e le degenerazioni conseguenti è domanda difficile come poche altre, alla quale solo la scorciatoia della stupidità o della malafede può spacciare una risposta semplice. Una sola evidenza, forse, apparirebbe già qui al buon senso: e cioè che i paesi a cui le vicende storiche avevano risparmiato l’esperienza delle divisioni razziali al proprio interno, dovrebbero - o avrebbero dovuto - riguardare e custodire questa loro condizione come uno dei più preziosi doni della buona fortuna.

Come che sia, chiunque voglia provvedersi di un’informazione adeguata alla complessità della questione, si troverà di fronte all’esigenza non solo di conoscere quanto più gli riesce dei risultati della ricerca scientifica sull’uomo, ma anche di combinare ad essi ulteriori nozioni di tipo storico, politico ed anche difficili riflessioni puramente etiche. Molto avrà a pretendere dunque dalla divulgazione a cui chiederà aiuto.

Per dare un sia pur minimo contributo ad approcciare la vastissima letteratura in materia, ed innanzitutto quella prodotta in Italia, vorremmo qui esaminare alcuni saggi divulgativi di Guido Barbujani: L'invenzione delle razze” (2006) , “Sono razzista, ma sto cercando di smettere” (2008, scritto in collaborazione col giornalista Pietro Cheli) ed “Europei senza se e senza ma. Storie di neandertaliani e di immigranti” (2008).

Barbujani è uno dei più noti genetisti italiani, con una vasta bibliografia specialistica a partire dagli anni ’90. Il più generale impegno politico contro il razzismo lo ha visto molto attivo in ambito universitario dove ha prodotto vari documenti e prospetti riassuntivi ad uso di studenti d’ogni indirizzo. Di fronte al pubblico più vasto ha fatto sentire la sua voce in dibattiti e conferenze, firmando manifesti e pronunciamenti ed infine scrivendo i saggi divulgativi di cui appunto s’è detto.
Per essi ha ricevuto diversi riconoscimenti, fra cui recentemente il Premio Napoli 2014, con una motivazione che vale la pena di riportare già qui in apertura: “Genetista di fama internazionale, Guido Barbujani si è segnalato per la sua opera di divulgazione scientifica, che ha avuto come oggetti privilegiati l’evoluzione umana e il tema delle ‘razze’; nonché per la sua produzione narrativa, tra fiction, autobiografia e documento. Per entrambe le vie, ha fornito al dibattito culturale utili antidoti a pericolose tendenze ideologizzanti e pseudo-scientifiche. La sua prosa, limpida ed efficace, e il senso innato della narrazione, ne fanno una figura singolare nello scenario italiano dove, a dispetto di Galilei, la qualità media della divulgazione scientifica appare oggi modesta.” (1)

Ora, che Barbujani abbia piena competenza specialistica sui temi che affronta - se non quelli storico-filosofici, almeno quelli propriamente biologici – è cosa su cui non si spendono parole che apparirebbero magari temerarie. E tuttavia - come l’esperienza ha assai spesso dimostrato - non meno temerario sarebbe l’affidarsi passivamente ad un burocratico principio di autorità come unico criterio di giudizio. Esso certamente deve aver il giusto peso, ma su temi di così grande rilievo a nessun lettore potrà mai esser risparmiata la fatica di una ricezione reattiva, critica. Non solo per la semplice constatazione che gli uomini di scienza si presentano spesso con pari stelle e greche sulla manica, e con opinioni frontalmente discordi, ma anche e soprattutto per il fatto che - contrariamente alla stretta competenza specialistica - il distacco ideologico e l’onestà intellettuale non son cose che si certificano alla breve con un curriculum stampato in quarta di copertina.

Eppure son doti, quest’ultime, a cui l’uomo di scienza che con la sua divulgazione pretenda di avere un ruolo pubblico di carattere anche politico, dovrà attingere non meno che alla stessa competenza specialistica. Egli è chiamato infatti ad una transazione tutt’altro che facile fra le ambizioni del suo impegno educativo ed il dovere mai derogabile di un’informazione oggettiva ed integra. Ciò che a loro volta i lettori dovranno cercare di capire, per ogni singolo autore, sarà dunque proprio questo: quali criteri abbia egli seguito nella necessaria semplificazione del discorso specialistico. Se cioè abbia voluto innanzitutto fornire i termini oggettivi delle questioni per poi lasciare sostanzialmente ai lettori di trarne le conclusioni dal punto di vista filosofico, etico o politico - offrendo eventualmente le proprie soltanto per ciò che sono. Ovvero se abbia cercato di condizionare e precostituire queste conclusioni per mezzo di una informazione orientata, distorta, che presenti i dati solo sotto una particolare luce, o che addirittura, nei casi peggiori, li vada inquinando con piccole o men piccole falsificazioni.

Solo una siffatta reattività dei lettori può d’altronde sollecitare gli uomini di scienza ad una cura più attenta della propria divulgazione e ad una maggiore sorveglianza sui propri eventuali cattivi istinti. E questo è particolarmente importante in un paese come il nostro che non ha fama d’una particolare attitudine di massa alla lettura, e che quindi può facilmente presentarsi alla mente del dotto come una platea per lo più impreparata, a cui è bensì il caso di “dare la linea”, ma per la quale non vale la pena di star poi troppo a curare l’originalità e la pulizia logica dell’argomentare, la cura dello stile e, soprattutto, la completezza e l’onestà della documentazione. Tutte cose che non vengon da sé senza fatica e che a taluni, a fronte di un pubblico acquiescente e poco esigente, finirebbero per apparire superflue, se non controproducenti.

Non è il caso di ricordare a questo proposito – ma è questione su cui si dovrà ritornare – certe antiche tradizioni che nel nostro paese hanno caratterizzato i rapporti fra le élites politiche e culturali e la massa della popolazione. In particolare, in tempi più recenti, la torbida rilettura che un certo gramscismo di dozzina ha fatto d’un altrettale e più antico machiavellismo, in base al quale la presunta nobiltà morale dei fini politici d’una minoranza di sedicenti coraggiosi può giustificare ed assolvere in via di principio qualsiasi mezzo di falsificazione e di menzogna volto a smovere il corpaccio svogliato del popolo. E se il fine è quello urgente e sacrosanto della lotta ai razzismi, chi mai avrà l’improntitudine di star sul puntiglio per qualche semplificazione, per qualche parzialità, per qualche distorsione di troppo?
E’ un discorso comprensibile, ma, come ognun vede, anche assai pericoloso. Fin dove può spingersi infatti il nobile empito a fornire “utili antidoti a pericolose tendenze ideologizzanti e pseudo-scientifiche” prima di sfociare nella pura e semplice disinformazione, cioè nell’ideologia e nella pseudo-scienza, siano pure di segno contrario?

Proprio per tal motivo non si ripeterà mai a sufficienza che mettersi ad analizzare e giudicare i testi della scienza con tutte le forze intellettive e lo spirito critico di cui si dispone, non vuol dire – come purtroppo molti pensano – pretendere presuntuosamente di fuoriuscire “de la volgare schiera” degli umili lettori e cercare di infiltrarsi, non si sa come, in quella degli specialisti per “conversar sovente co' suoi piacevolmente”.
Leggere criticamente, discutere, contestare, confrontare, confutare all’occasione e sempre trarre le proprie personali conclusioni, non travalica l’abito proprio e peculiare del lettore, ma piuttosto lo prende sul serio per quello che è. E cioè anche una parte rilevante del proprio ruolo di cittadino e di soggetto politico – quel ruolo che ci si deve mettere in grado di condividere del tutto alla pari e con chiunque altro.

Nessuno si indispettisca dunque se ci permettiamo, visto che non siamo in un’aula universitaria, di mettere per iscritto e con la massima franchezza, le nostre impressioni su Barbujani come divulgatore. Tanto più che nello scegliere i criteri con cui dar di mano alla penna, egli ha già dato il suo implicito giudizio – e vedremo quale – su tutti noi sia come lettori che come cittadini.
Non passeremo subito ad affrontare il difficile merito delle questioni – su cui contiamo di ritornare ampiamente - ma sulle prime vogliamo limitarci con qualche esempio a saggiare il tono ed il linguaggio che egli usa ed i modi in cui riporta al lettore le fonti di cui si serve.


(Per non accumulare troppe note considereremo i tre saggi di Barbujani come una sola opera. In mancanza di note, le citazioni si intendono relative a “L'invenzione delle razze” (2006); per le altre sue opere è indicato l’anno relativo [2008a e 2008b]. Le traduzioni da altre fonti, salvo eccezioni riportate in nota, sono mie; purtroppo l’indicazione delle pagine non è sempre possibile perché spesso assente nelle edizioni digitali; si indicano eventualmente i paragrafi.)

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1. www.premionapoli.it/events/event/barbujani/



Barbujani ed Entine …de quo fabula narratur?




Cominceremo esaminando il paragrafo che Barbujani dedica ad uno dei settori in cui per molto tempo il concetto di razza è stato d’uso comune, e da cui ancor oggi pare faccia fatica a liberarsi: lo sport. Barbujani imposta tale paragrafo in diretto riferimento polemico ad un’opera del 2000 del giornalista scientifico statunitense Jon Entine che in qualche modo ha riacceso la discussione sul tema: “Taboo. Perché gli atleti neri dominano gli sport e perché abbiamo paura di parlarne” (2). La tesi generale di Entine è che il grande successo degli atleti neri in moltissime discipline sportive non sia legato solo a motivi sociali contingenti, ma anche a predisposizioni genetiche di carattere, appunto, “razziale”. E’ una tesi, questa, che è sempre circolata e spesso senza dar immediato sospetto di intenti offensivi, tanto da esser fatta tranquillamente propria, e magari con orgoglio, da molti dei presunti discriminati. Tuttavia negli ultimi decenni, sempre più dominati dal dogma del “Colour Blindness”, anche solo l’idea che in una gara sportiva si potessero percepire altri colori oltre a quelli delle tute, ha cominciato a far ombra e diventare anch’esso, appunto, un “tabù”, la cui violazione negli Stati Uniti è costata la carriera a non pochi incauti commentatori. Con il suo saggio, Entine cercò di affrontare il problema, sulla base della convinzione che una società realmente matura possa parlare delle differenze senza vedervi necessariamente una forma mascherata di insulto.

Barbujani contesta in radice e senza mezzi termini l’intero tentativo di Entine, e come esempio del modo davvero singolare in cui intende la divulgazione, vogliamo riportare subito e per intero il paragrafo che gli dedica nel saggio del 2006, intitolato “Atleti di razza”:
“Il successo di un testo come “The Bell Curve” ha scatenato una gara di emulazione in cui il rigore scientifico è andato subito a farsi benedire. Un episodio fra tanti. Nel 1999 Jon Entine in un libro intitolato “Tabù: Perché gli atleti neri dominano gli sport e perché abbiamo paura di parlarne” esamina i risultati di diverse discipline sportive, e conclude che i neri sono intrinsecamente, naturalmente fatti per eccellere negli sport. "La variabile decisiva sta nei nostri geni - le differenze intrinseche fra popolazioni, modellatesi nel corso di migliaia di anni di evoluzione". Se l'eccellenza sportiva ha una base biologica ereditaria, lo stesso varrà per altre caratteristiche umane, per esempio l'intelligenza: pare inevitabile concludere che buone prestazioni sportive sono associate a scadenti livelli intellettuali. E poi non sarà un caso se molti indiani d'America sono alcolizzati, o se i cinesi sono bravi in matematica, no?
Entine non è un antropologo e non ha esperienza diretta in materia. Pesca qua e là un bel po' di luoghi comuni sui popoli della terra e, non riuscendo a immaginare alternative, arriva invariabilmente a due conclusioni, sempre le stesse: siamo come siamo perché sta scritto nei nostri geni, e i nostri geni sono così perché siamo divisi in razze differenti. Non ha neanche idea di cosa sia una razza: di volta in volta la razza privilegiata nello sport sembra essere quella africana, e poi si scopre che in realtà sono gli africani dell'est, e poi si scopre che in realtà sono i kenioti, e poi si scopre che in realtà sono i kenioti di una certa tribù. Tutto fa brodo. Nell'inventarsi di sana pianta invasioni arabe che avrebbero conferito agli africani dell'est speciali doti di resistenza, ignote a quelli dell'ovest che però sarebbero più svelti sulle brevi distanze, Entine fa venire in mente Fritsch e le sue migrazioni immaginarie, solo che lui scrive nel ventesimo secolo, quando il fumo dell'ignoranza dovrebbe essersi diradato parecchio.
La domanda da cui parte Tabù è interessante: perché certa gente emerge, diciamo, nella fisica, e altri nel salto triplo? Ce ne sono altre, simili, ugualmente interessanti: perché gli svizzeri sono precisi, gli spagnoli nottambuli, i greci fumano come turchi e gli italiani violano continuamente il codice della strada? Purtroppo, poste così, non sono domande a cui si possa rispondere scientificamente. La scienza descrive i fenomeni e ne cerca le cause nel mondo fisico, mentre qui siamo alle prese con fenomeni mal definiti, con un minestrone di dati chiari e dati oscuri, conditi da valutazioni arbitrarie e da un sacco di stereotipi. Insomma, stiamo dando la caccia al cavallo immateriale invisibile del capitolo 6. Alla fine del libro ne sappiamo tanto quanto prima: kenioti ed etiopi vincono la maratona (ma non sempre; ad Atene ha vinto uno di Reggio Emilia) mentre nessun cinese ha mai corso i 100 metri in 10 netti. Evviva. E Ella Fitzgerald, che pesava un quintale, poteva anche lei far faville nel mezzofondo? Si potrebbe andare avanti, interrogarsi sul perché i sardi diventano carabinieri e gli zoldani gelatai. Ma finché qualcuno non troverà il gene del carabiniere in Sardegna, del gelataio in val di Zoldo o, nel caso di Entine, della velocità e della resistenza, meglio evitare di inventarsi banalità. Prima o poi penso che scopriremo alcuni alleli che conferiscono maggior resistenza nella corsa. Riparliamone allora, e vediamo se salterà fuori che sono distribuiti per razze (io scommetto di no). Dimenticavo: abbiamo paura di parlare della superiorità fisica degli atleti neri perché la mentalità progressista, mentalità dominante in America secondo Entine, non ci permette di accettare serenamente la superiorità intellettuale dei bianchi.”


Come si vede, Barbujani - nel mezzo di un prosa che oggettivamente non sembra segnalarsi per particolare rifinitura stilistica - non manca però di ricorrere ad un arcigno principio d’autorità: “Entine non è un antropologo e non ha esperienza diretta in materia”. Anche qualche pagina più oltre ribadirà la sua totale disistima, riprendendo un collega per essersi abbandonato a speculazioni infondate ”come un qualunque Jon Entine”. Ora, comprendiamo bene che Entine è solo un giornalista scientifico, privo di cattedra, e che quindi lo si possa insolentire liberamente senza creare casi diplomatici in ambiente accademico. Tuttavia – vien fatto di dire - il nostro professore dovrebbe pur comprendere che il reale interesse del lettore, anche il più ossequioso alla gerarchia, è comunque innanzitutto quello di ricevere dati corretti, da qualunque fonte arrivino, e non sarà mai particolarmente interessato alle falsificazioni documentali soltanto perché gli sono fornite da un illustre genetista.
Ma per gradi.

Due in buona sostanza sono le chiavi interpretative che Barbujani offre al suo lettore per giudicare il lavoro di Entine: che egli sia un cialtrone e che sia un razzista. Sul primo punto, il lessico e le espressioni usate non possono lasciar dubbi: ”minestrone”, “brodo”, “ valutazioni arbitrarie”, “un sacco di stereotipi”, “fumo dell'ignoranza”, “rigore scientifico a farsi benedire”, “banalità”, etc.
In realtà però il lettore che per ipotesi si prenda subito la briga di leggere per intero il corposo lavoro di Entine, non è detto ne tragga subito così netta l’impressione, per dirla con Barbujani, di ”un guazzabuglio di luoghi comuni, salti logici, dati seri interpretati alla garibaldina e dati poco seri”. Anche perché - come i lettori con una qualche esperienza in ambito saggistico ben sanno - spesso i giornalisti scientifici o i non accademici in generale, non avendo dalla loro l’autorevolezza della cattedra (grazie alla quale magari prendersi all’occasione il ghiribizzo di violare le più elementari regole di correttezza), pongono in genere una gran cura d’appoggiarsi ad una documentazione la più vasta ed autorevole possibile, né Entine in questo fa certo eccezione.
Limitandoci per ovvi motivi solo a qualche rapidissima esemplificazione fra le tante possibili, apprendiamo per esempio alcuni dati – di carattere puramente fattuale - che non sembra avventato definire come desiderosi di una spiegazione causale. Per esempio che “tutti i quaranta finalisti delle ultime cinque finali olimpiche maschili dei 100 metri discendono da antenati dell'Africa occidentale.” E che dunque, “considerato che la percentuale sulla popolazione mondiale delle persone originarie di questa regione è di circa l’8%, la probabilità che questo sia accaduto fortuitamente è dello 0,00000000000000000000000000000000000000000001 per cento.” (p. 34) Oppure quest’altro dato statistico: “Il Kenya ha raccolto quarantacinque medaglie olimpiche dopo le Olimpiadi del 1964 (...) superata solo dagli Stati Uniti ricchi di sprinter e con una popolazione dieci volte più grande. Nel 1988 a Seoul gli uomini del Kenya hanno vinto gli 800, 1.500 e 5.000 metri, oltre ai 3000 siepi. Sulla base delle percentuali demografiche la probabilità che questo paese delle dimensioni del Texas abbia potuto realizzare un simile risultato in modo casuale è di 1 su 1.600.000.000.” (p. 39).
Di fatto – ci informa ancora Entine - nell’anno 1999 dei primi 500 tempi sui cento metri piani, 494 sono detenuti da atleti originari dell’Africa occidentale, così come il 98 % dei migliori tempi nelle altre gare di velocità (200 e 400 m). Nelle gare di fondo, gli atleti provenienti da Kenia ed Etiopia vantano oltre il 50% dei migliori tempi a livello mondiale. (p.34) Di contro gli atleti originari dell’Africa occidentale sono praticamente assenti dalle classifiche delle gare di fondo, e parallelamente “il miglior tempo di un keniano nei cento metri si situa all’incirca verso il 5000° posto nelle classifiche internazionali” (p.xiii). A quella data nessun bianco era sceso sotto i 10 secondi nei cento metri (oggi però uno ce n’è: il francese Lemaitre).

Anche la proposta teorica generale con cui Entine dà conto di tali fenomeni – sia poi essa corretta o meno - appare sulle prime abbastanza sensata, ai limiti del banale: l’efficienza della corsa o quella nel salto – due elementi fondamentali di gran parte degli sport - possono essere facilmente influenzate da pochi caratteri, come per esempio anche solo una diversa percentuale media di grasso nei tessuti. Si tratterà certamente di piccole differenze che però, in discipline sportive in cui si arriva a tener conto anche del centesimo di secondo, possono determinare una costante differenza di risultati, appunto quella che constatiamo nelle classifiche sportive internazionali: “i neri – scrive Entine - hanno per natura meno grasso corporeo, un piccolo vantaggio fisiologico che si può tradurre in un importante vantaggio sul campo. Questa differenza può essere una variabile chiave per garantire una superiorità nella corsa.” (p. 252)
Che una tale caratteristica possa poi avere carattere “razziale”, cioè essere stata diversamente selezionata per adattamento nelle grandi popolazioni umane distinte su base geografica, è anch’essa tesi che sulle prime sembrerebbe tutt’altro che inconcepibile, anche in considerazione della fondamentale funzione di isolamento termico e di riserva di calorie che il grasso svolge in tutti gli animali superiori. E’ quindi possibile ipotizzare che le popolazioni umane che hanno avuto sede per lungo tempo in climi temperati o freddi, abbiamo fra l’altro evoluto un livello di grasso corporeo leggermente superiore rispetto a popolazioni che hanno sempre risieduto in climi tropicali o equatoriali – con un adattamento del tutto analogo a quello prodottosi per esempio nella pigmentazione della pelle in rapporto alla diversa radiazione solare.
Considerazioni non troppo diverse potrebbero essere fatte sulla proporzione fra diverse tipologie di fibre muscolari, sulla distribuzione dei pesi, sull’efficienza delle respirazione, etc. Sono tutte caratteristiche chiaramente determinate anche geneticamente e che come tali è assai probabile siano state sensibili nel tempo alle diverse pressioni selettive ambientali. Di tutte queste materie il libro di Entine offre ai lettori una lunga - e a tratti anche prolissa - esposizione.

Si tratta di ipotesi, ripetiamo. Ma se è vero - come scrive Barbujani stesso - che “la scienza descrive i fenomeni e ne cerca le cause nel mondo fisico”, non si vede perché negare che nel saggio di Entine vi sia appunto la descrizione di alcuni fenomeni, come s’è visto, non poco sorprendenti, e ne siano state cercate le cause nell’ambito del mondo fisico.
Nelle ipotesi scientifiche non è richiesta d’altronde sempre un’immediata ed integrale dimostrazione, ma semplicemente che esse siano concepite con un minimo, quantomeno, di buonsenso e di costrutto. Non diversamente – verrebbe fatto di dire – da quel che si raccomanda anche a proposito delle confutazioni che se ne tentino. Così che la successiva spazientita obbiezione di Barbujani - “E il nuoto, perché non eccellono anche nel nuoto, i neri? Chiederselo sarebbe utile” – è singolare la sua parte. Il giornalista infatti se lo è chiesto – basta leggerlo - e la risposta, diversamente dal genetista, gli è venuta tra le mani da sé, visto che la percentuale di grasso nei tessuti ha un’evidente influenza sulla galleggiabilità: “I neri – scrive Entine - non hanno mai eccelso nel nuoto o nei tuffi. Fino al 2000 nessun nero si era mai qualificato nelle squadre olimpiche di tali discipline. (...) In termini colloquiali, i neri sono considerati dei "piombini" [sinkers]. Numerosi studi nel corso di molti decenni hanno costantemente dimostrato che i neri hanno scheletri più densi e che i migliori atleti neri hanno più bassi livelli di grasso corporeo rispetto ai bianchi o asiatici.” (p. 283)

Su questa base, anche altri due biologi, peraltro di non meno integerrima certificazione liberal - M. Pigliucci e J. Kaplan – non hanno ritenuto di dover trasecolare di fronte all’ipotesi di Entine, e, pur scusandosi di ricorrere ad un “trivial example” (sono pur sempre cattedratici), commentano: “alcune popolazioni nere dell'Africa occidentale producono più velocisti di classe mondiale rispetto alla loro dimensione demografica ed a quanto ci si dovrebbe aspettare se la distribuzione delle qualità atletiche fra esseri umani fosse casuale. Parimenti il Kenia, (in particolare la regione Nandi) produce molti più maratoneti di valore rispetto alla sua dimensione. E' certamente possibile che queste differenze regionali nella produzione di atleti di vertice riflettano le differenze regionali nella capacità atletiche (o, per meglio dire, più generali differenze di carattere fisiologico), ed è anche possibile che queste differenze siano il risultato di adattamenti locali a particolari ambienti (tra cui forse situazioni culturali a lungo termine). Se è così, in una concezione ecotipica di razza, ci sarebbero effettivamente “razze” - e di fatto razze associate alle capacità atletiche.” (3)
Sia chiaro che non si vuole qui contrapporre banalmente un’opinione ad un’altra, per quanto non meno autorevole dal punto di vista accademico e non meno affidabile ideologicamente. E peraltro Pigliucci e Kaplan non fanno sconti al giornalista statunitense, criticando l’uso imprudente delle “folk races”, cioè le classificazioni razziali ordinarie, al posto delle “ecotypical races” da loro caldeggiate. Resta il fatto però che anch’essi finiscono per convenire che, se si prendono i dati forniti “at face value”, cioè per buoni, e si apportano le dovute correzioni terminologiche, l’ipotesi di Entine conserva comunque nella sua sostanza una piena dignità scientifica, anzi appare loro “certainly possible”.
D’altra parte – lo si è già accennato - è lo stesso Barbujani che finisce per riconoscere, sia pur fra le righe, il sostanziale status scientifico del “minestrone”: “Prima o poi penso che scopriremo alcuni alleli che conferiscono maggior resistenza nella corsa. Riparliamone allora, e vediamo se salterà fuori che sono distribuiti per razze (io scommetto di no).” Con ciò viene quindi implicitamente ammesso che la tesi, sia essa vera o meno (ma Barbujani “scommette di no”), ha comunque carattere scientifico, in quanto falsificabile, tanto che sarà possibile scoprire di che fargli vincere la scommessa.

Come s’è già premesso, non vorremmo entrare per il momento nel merito delle questioni. Faremo quindi finta di ignorare che, in base a quanto esposto nel resto della sua opera, ciò che Barbujani sta propriamente contestando qui non è che i talenti atletici, come qualunque altro carattere, possano avere anche una base genetica, ma solo che essi possano essere “distribuiti per razza”. E nella sua concezione si può determinare una razza umana solo a condizione di indicare alcuni caratteri che sono posseduti da tutti i suoi componenti e solo da essi. Per conseguenza - par di capire - sarebbe lecito utilizzare le categorie razziali a proposito dello sport, se e solo se tutte le persone di colore fossero senza eccezione dotate di un talento atletico nettamente superiore a quello di tutti gli individui appartenenti alle altre razze, nessuno escluso. Proprio per questo Barbujani ritiene decisivo ricordare che un italiano, Stefano Bandini, è riuscito a vincere una medaglia olimpica nella maratona, e che per parte sua la cantante nera Ella Fitzgerald certamente si sarebbe fatta superare nel mezzofondo da molti individui di razza bianca.
Sul grande pregio di una siffatta teoria si avrà occasione di ritornare ancora. Ma ne resti convinto o meno, ogni lettore potrebbe comunque legittimamente aspettarsi che a questo punto, superato il pretesto polemico iniziale, finalmente la superiore competenza dello scienziato scenda in campo a sciogliere i nodi, argomentando alla buon’ora in modo serio e con un linguaggio adeguato, un percorso teorico alternativo a quello amatoriale proposto da Entine.
Colui che si aspettasse tanto, tuttavia, resterebbe deluso. Ecco infatti che l’illustre genetista – forse per non portare troppo al largo l’esile barchetta mentale del lettore italiano - rinuncia a qualsiasi controdeduzione seria, scarta d’improvviso e dà un paio di gagliarde girate alla corda comica: “La domanda da cui parte Tabù è interessante. - ironizza - Perché certa gente emerge, diciamo, nella fisica, e altri nel salto triplo? Ce ne sono altre, simili, ugualmente interessanti: perché gli svizzeri sono precisi, gli spagnoli nottambuli, i greci fumano come turchi e gli italiani violano continuamente il codice della strada?” Il fatto è che “finché qualcuno non troverà il gene del carabiniere in Sardegna, del gelataio in val di Zoldo o, nel caso di Entine, della velocità e della resistenza, meglio evitare di inventarsi banalità.”

La virata sulle prime potrebbe anche sconcertare il lettore meno provveduto. Ma agli occhi dello smaliziato sarà tutto già chiaro: in realtà a scendere in campo qui non è la competenza specialistica, ma piuttosto il più classico ed abusato degli espedienti con cui togliersi d’impaccio, di cui già ebbe a suo tempo a lamentarsi addirittura un Charles Darwin - il vecchissimo trucco dello “straw man”. Invece di affrontare l’avversario in carne ed ossa e sullo stretto merito della questione - cimento che magari potrebbe far sudare più del dovuto – si mette su alla bell’e meglio un fantoccio di paglia, gli si pone in testa una ridicola casseruola, gli s’annodano intorno quattro stracci ed una mazza di scopa a far da spada, e dopo averlo presentato alla piazza col nome del proprio avversario, eroicamente gli si tornea dattorno menando di gran fendenti sino a riportarne trionfo rapido e completo, fra gli evviva e le risate del pubblico.

Non è infatti improbabile che nello scrivere queste righe, il nostro professore si sia compiaciuto immaginando il sorriso complice di certi suoi lettori d’elezione: guardate un po’ come m’adopero per voi contro “un qualunque Entine”, dilettante che “pesca qua e là un bel po' di luoghi comuni sui popoli della terra” e ci propina un siffatto “minestrone di dati chiari e dati oscuri, conditi da valutazioni arbitrarie e da un sacco di stereotipi” – finendo peraltro subito a gambe all’aria.
Ed in effetti, chi potrebbe dargli torto? Il ricorso agli stereotipi, tanto più quelli che riguardano i tratti caratteriali dei vari gruppi umani e tanto più se denigratori, è pratica del tutto squalificante e indegna di qualunque contesto saggistico. Peccato però che dopo averne fatto carico ad Entine, poi Barbujani non ne abbia citato nemmeno uno tratto dal suo libro – dal “sacco” che ne conterrebbe - e finisca così per servirsi di stereotipi e luoghi comuni di livello infimo – sul tipo degli “spagnoli nottambuli” o dei “greci che fumano come turchi” - che è stato egli medesimo e non altri ad introdurre, e che di fatto sono interamente ed unicamente crusca del suo sacco. Insomma, sceglie accuratamente stereotipi ridicoli e triviali e poi si lamenta dolceamaro di tanta ridicola trivialità. … de quo fabula narratur?

Ma non solo. Rendendosi evidentemente conto di star scrivendo una pagina non proprio immortale in fatto di vigore argomentativo, Barbujani cerca di dare più brio alla propria stroncatura e non pago di aver ritratto Entine come un cialtrone, gli dà anche del razzista, di quelli fissati con la “superiorità intellettuale dei bianchi”. L’accusa di razzismo sarà infatti la stoccata finale, il fendente irresistibile che farà giustizia del vil fantoccio che si voleva spacciar da cavaliere: “Se l'eccellenza sportiva ha una base biologica ereditaria” – scrive Barbujani - lo stesso varrà per altre caratteristiche umane, per esempio l'intelligenza”, e subito di seguito aggiunge “pare inevitabile concludere che buone prestazioni sportive sono associate a scadenti livelli intellettuali.”
In quale pagina Barbujani ha letto una tale tesi? Dove Entine afferma che ad una maggiore prestanza degli atleti di colore si accompagna una loro inferiorità intellettiva? In via di fatto non solo nell’opera di Entine non viene stabilita mai ed in alcun modo una tale associazione, ma si sostiene esplicitamente e ripetutamente il contrario. Si legge per es. a p. 245: “Non si affermerà mai abbastanza [It cannot be stated too strongly] che i dati di fatto definitivi che collegano le doti atletiche ai nostri antenati hanno poco o nulla da dire sull’intelligenza. Va ricordato che il cervello umano è il prodotto di circa 40.000 geni, cioè quasi la metà del genoma umano. Esso è molto, molto più complesso di quanto possa essere la genetica dei tempi di reazione o della resistenza. Le differenze sulla pista o sul campo di basket non comportano necessariamente una differenza in mezzo alle orecchie.” E ancora: “Tutti noi sappiamo cosa c’è dietro queste polemiche. L’elefante in salotto è l’intelligenza. Nell’ordinaria ma erronea equazione, quoziente di intelligenza e prestanza fisica sono inversamente proporzionali. Gli atleti sono tutti stupidi, questo è lo stereotipo corrente. (...) Ma è tempo di separare intelligenza e fisicità.” (pp. 336-7; cfr. anche pp. 74-5).
Il nostro professore però insiste e nel finale dà ancora qualche eroico pestone ai mucchi di paglia che s’è messo gagliardamente sotto i piedi. Il libro di Entine, come s’è visto, porta come sottotitolo “Perché gli atleti neri dominano nello sport e perché abbiamo paura di parlarne.” In chiusura Barbujani riassume così da par suo la tesi del libro: “abbiamo paura di parlare della superiorità fisica degli atleti neri perché la mentalità progressista, mentalità dominante in America secondo Entine, non ci permette di accettare serenamente la superiorità intellettuale dei bianchi.”
Ancora una volta: in quale pagina Barbujani ha letto una simile tesi? Da quale fonte l’ha tratta se non dalla propria fantasia o meglio – a questo punto si è ben autorizzati a dirlo – dalla propria slealtà intellettuale?

Qualunque dubbio su quest’ultimo punto, pensiamo venga chiarito nel successivo saggio del 2008a. Qui Entine è nuovamente tirato in ballo e nuovamente l’accusa di razzismo è reiterata, questa volta però con una sia pur vaga indicazione bibliografica: “La razza e la genetica, [per Entine] hanno senz'altro un ruolo significativo nel determinare l'“impressionante e innegabile” superiorità nera negli sport.” Ma – ci mette sull’avviso Barbujani - “ormai dovremmo averlo capito: questi complimenti sono strumentali, servono a preparare l'affondo che andrà in direzione opposta. (...) L'affondo arriva qualche pagina dopo, quando Entine spiega perché abbiamo paura di parlare della superiorità nera. Non si può essere superiori in tutto: i neri vanno come delle schegge e vincono le Olimpiadi, d'accordo, ma quando si tratta di ragionare mostrano i loro limiti. Ognuno è superiore in qualcosa, a noi bianchi è toccato il cervello. Purtroppo parlarne disturba le coscienze di chi pensa che democrazia significhi far finta di essere tutti uguali. Colpa dei comunisti, anche qua.”
Bene, da queste righe si può dedurre che Barbujani ha materialmente letto il libro di Entine e che quindi le accuse che gli rivolge non possono essere giustificate da una conoscenza per sentito dire. Fatto sta che il lettore che vada subito alle pagine seguenti e sino a fine capitolo, per assistere finalmente all’”affondo” e sorprendere Entine in flagranza di razzismo, non troverà nulla di quello che ha finto di leggervi Barbujani, anzi.
Dopo le citazioni riportate, Entine infatti prosegue a distesa con la più ineccepibile delle proclamazioni contro il razzismo, e dopo aver riportato la diffidenza di due opinionisti afroamericani per i troppi complimenti alla superiorità atletica dei neri – appunto i “complimenti strumentali” di cui parla Barbujani – commenta: “Herbert e Rhoden colgono un punto importante. La vicenda storica della schiavitù nel mondo e i persistenti abusi della scienza della razza hanno offerto un permanente esempio di ciò che può accadere quando un interesse conoscitivo per le differenze umane si incancrenisce in un’ossessione basata sulla classe, l’etnicità o la razza. La fascinazione dei bianchi per la fisicità dei neri è stata parte di un’oscura corrente sotterranea sin dai primi tempi del colonialismo. Nella mente di molti il dato delle differenze fisiche si è legato a stereotipi razzisti di una natura "animalesca" dei neri, con l'implicazione che essi sono in qualche modo intellettualmente inferiori. (...) L’esser bianchi ha finito per simboleggiare il potere politico, la ricchezza, il progresso economico, la razionalità e la cultura avanzata, mentre l’esser nero è identificato con la naturalità, la sensualità, l’ipersessualità, la musicalità, la pigrizia, il ritardo mentale, una cultura minorata - e l’atletismo. Con qualche variazione, questi stereotipi valgono in gran parte del mondo.” (p. 5)

Come ben si vede Entine non s’atteggia a falso ingenuo, fingendo di ignorare che i complimenti alla superiore “fisicità” dei neri siano stati strumentalizzati per veicolare apprezzamenti di tutt’altro segno; e così non manca di ammonire che anche l’ammirazione più sincera deve sempre tener conto che determinati “stereotipi sono chiaramente filtrati dal paradigma culturale di secoli di razzismo e che mentre un bianco può avere l’impressione che definire “atleta naturale” un nero sia un complimento, un nero potrà invece vederlo come una svalutazione di anni di impegno personale e duro lavoro.” (p. 266) Ma nondimeno egli non si rassegna all'idea che l’unica risposta alle imposture del fanatismo del passato, possa essere ancor oggi soltanto l’impostura di un nuovo fanatismo di segno contrario che crede di risolvere problemi formidabili negando evidenze “so obvious even to a child.” (p. 10) Per Entine una società matura e realmente “postrazziale” è quella capace di riconoscere le differenze reali fra gli uomini, quali che esse siano, senza trarne pretesto di diffidenza e di divisione: “Questo libro usa lo sport come metafora, come punto d’assaggio, per così dire, per esaminare perché i neri ed i bianchi abbiano tanta difficoltà a riconoscere le loro differenze – il primo e più importante passo per superarle. Le competizioni atletiche, che godono di un’oggettività che manca in molti altri ambiti della vita, è un laboratorio perfetto per un’esplorazione seria di tale argomento. La sfida è di vedere se saremo in grado di condurre il dibattito in modo che le differenze tra gli uomini possano farci celebrare la nostra individualità, piuttosto che alimentare la sfiducia [fanning distrust]. Alla fine, nonostante tutte le diversità, la nostra somiglianza è molto, molto maggiore. Questo è il solo vero messaggio di questo libro.” (p. 10)
Insomma la paura che Entine vorrebbe contribuire a superare è alla fin fine proprio quella che fomenta qualsivoglia ideologia “dressed up as scholarship” (p. 116) e che, magari col linguaggio più volgare e supponente, vuole ovunque scovare il “razzista” da additare alla piazza. Un nemico da insultare e demonizzare, se necessario anche a costo di inventare le prove d’accusa di sana pianta.

A questo punto però - sia chiaro - nemmeno vogliamo farla troppo tragica: la trivialità della pagina di Barbujani, di stile come di pensiero, è troppo scoperta perché sia il caso di correre sconvolti a strapparsi le vesti dinanzi all’ara di Athena. (4) Quando gli argomenti utilizzati arrivano ad evocare il “quintale di peso” che impediva ad Ella Fitzgerald “di far faville nel mezzofondo”, o “il gene del gelataio di Zoldo”, ogni lettore un po’ avvertito comprende subito di non essere più alle prese con una divulgazione minimamente seria, ma nel mezzo di una chiacchierata da sala d’aspetto in giornata di sciopero. L’unica curiosità che resterebbe a questo punto, vista la sacrosanta deprecazione del professor Barbujani per gli stereotipi, è di quale stereotipo egli abbia mai concepito a proposito del livello mentale medio dei suoi lettori italiani.



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NOTE.

(2). http://libgen.in/get.php?md5=aee245e6f7c47...b3c079ddb7b803b
(3). http://libgen.in/scimag/get.php?doi=10.1086%2F377397, p. 1167.
(4). Di fronte ad una pratica di falsificazione così scoperta, si finisce per provare disagio ad indugiare troppo. Commentiamo così solo con qualche nota e giusto per completezza, anche il giudizio che Barbujani dà nel saggio del 2008a, di un’altra opera di Jon Entine, “Abraham's Children. Race, Identity, and the DNA of the Chosen People” (2007).
Qui il razzismo di Entine - “il primo che sia riuscito nell'accoppiata neri-ebrei” (2008a) - si manifesterebbe nell’attribuire agli ebrei lo status di “razza a parte”, in particolare a partire dall’avvenuta identificazione di un aplotipo - il Cohen Modal Haplotype (CMH) ”– presentato come esclusivo di quell’etnia. Barbujani ammette bensì che tale aplotipo, assente nella quasi totalità delle popolazioni umane, compare con particolare frequenza nel cromosoma Y di maschi ashkenaziti - indice di un antenato comune - ma giustamente avverte: “Attenzione però, non si può dire che quel particolare tipo di cromosoma Y è il cromosoma dei Cohanim: quel cromosoma lo ritroviamo infatti in molte popolazioni del Medio Oriente, ebree e no. In particolare, curdi ed ebrei sefarditi sono impossibili da distinguere geneticamente, mentre entrambi hanno cromosomi Y differenti da quelli degli ebrei ashkenaziti. Insomma, gli ebrei sono un gruppo con una forte identità culturale e religiosa, ma non sono una razza più di quanto lo siano gli altri gruppi umani, cioè non lo sono affatto. Se si dovesse ragionare sui risultati di studi seri come questi, riuscirebbe più difficile spararla grossa e, perciò, Jon Entine gli studi seri li lascia stare.”
Ora, non si saprebbe dire se Entine abbia letto o meno tutti “gli studi seri” sull’argomento che tratta; ciò che tuttavia appare sempre più chiaro è che – a dire il minimo - Barbujani legge assai poco gli studi che critica. Entine infatti a più riprese sottolinea il punto medesimo, cioè che nessun carattere, per quanto appaia con spiccata frequenza nel patrimonio genetico di coloro che si autoidentificano come ebrei, è comunque una loro esclusività e ne fa quindi “una razza a parte”, permettendone l’identificazione certa. Scrive infatti: “E’ facile fraintendere ciò che il Cohen Modal Haplotype può dirci. (...) Esso è stato identificato anche in qualche popolazione non europea, anche se con frequenze basse, non paragonabili con le alte percentuali del clero ebraico autoidentificato. Tutte queste popolazioni – Curdi, Armeni, Ungheresi, Italiani del Centro e del Meridione – si ritiene condividano qualche comune ascendenza con gli Ebrei, o per un ampio incrocio con essi o perché discendenti da ebrei convertiti. Una cosa è chiara: il Cohen Modal Haplotype non può provare definitivamente l’esistenza di un singolo fondatore del sacerdozio ebraico, per non dire della sua identificazione con Aaron.” (Cap. 5, A marker of jewish identity?) “Ciò che un aplotipo modale consente – ci ricordano gli scienziati – non è di provare positivamente una discendenza, ma solo di escluderla quando è infondata.” E, citando diversi ricercatori inequivocabilmente “seri” – con buona pace di Barbujani - prosegue: “Karl Skorecki [Direttore del Medical and Research Development al Rambam Hospital in Haifa] ha ripetutamente ricordato a diversi intervistatori, tra cui me stesso, che questo aplotipo si ritrova anche in non-ebrei. Robert Bradman [Department of Biology, University College of London] e Mark Thomas [Center for Genetic Anthropology, University College London] hanno sottolineato parimenti (...) che “Nonostante l’identificazione del Cohen Modal Haplotype non è possibile affermare che questi siano i marcatori di ogni “vero” Cohen o che vi sia stato un “primo Cohen”, sia esso Aaron o altri. Similmente non c’è un aplotipo ebraico e la genetica non può “provare” se qualcuno sia ebreo o meno; è cosa che spetta alle autorità religiose. Né la genetica può provare se una particolare comunità sia o non sia ebraica.” (Cap. 5, The politics of genetics).
Un’altra presunta contraddizione, direttamente collegata alla precedente e che vale ad Entine una nuova raffica di sprezzanti commenti da parte di Barbujani, riguarda l’incompatibilità di un’alta frequenza di matrimoni con gentili, storicamente accertata, con la “purezza” ebraica di cui il giornalista statunitense si sarebbe fatto paladino: “Jon Entine sostiene due cose in contrasto fra loro: che la tendenza matrimoniale attuale non è una novità, cioè che da sempre gli ebrei si sono sposati con chi ebreo non era (e qui ha ragione); e che gli ebrei attuali sono quasi tutti discendenti diretti dei pochi fondatori, di quel nucleo iniziale che per millenni ha cresciuto i figli nel rispetto della tradizione. Come la seconda cosa sia compatibile con la prima è un mistero, ma i salti logici, ormai l'abbiamo capito, abbondano in questa zona grigia in cui si prende dalla scienza ciò che fa comodo e per il resto ci si affida alla fantasia.”
Sennonché ha scritto recentemente Entine: “Perché gli ebrei sono di aspetto così variabile, condividendo di solito le caratteristiche delle popolazioni circostanti? Pensate agli ebrei con i capelli rossi, con gli occhi azzurri o agli ebrei neri d'Africa. Come ogni popolazione (...) gli ebrei nel corso della storia si sono spostati e incrociati variamente, sebbene l’esogamia sia stata relativamente infrequente fino agli ultimi decenni. Anche se ci sono precise variazioni genetiche che sono comuni tra gli ebrei, essi non sono una razza "pura". La macchina del tempo dei nostri geni può mostrare che la maggior parte degli ebrei hanno un antenato comune che risale all'antica Palestina, ma, come tutta l'umanità, gli ebrei sono bastardi. Circa l'80% dei maschi ebrei e il 50% delle femmine ebree possono far risalire la loro ascendenza all’area del Medio Oriente. Il resto è entrato nel "patrimonio genetico ebraico", attraverso la conversione o l’esogamia.” (www.unz.com/isteve/jewish-daily-for...ighlight=entine) In termini più generali, precisa Entine, “Due individui possono condividere un marcatore nel cromosoma Y (o nel mtDNA) e mostrare poca somiglianza genetica a causa del fatto che il loro antenato comune è molto lontano nel tempo e il loro intero genoma si è rimescolato molte volte nel corso dei secoli.”
Su questo punto, Barbujani ritiene di poter trarre argomenti anche da una successiva intervista rilasciata da Entine al “gestore di un sito razzista” - il giornalista scientifico Steve Sailer – in cui riapparirebbe ancora una volta l’idea che gli ebrei siano “una razza a parte”. Scrive Barbujani: “La verità, secondo Entine, è che ci sono tante differenze razziali; ne conosciamo poche (non è vero: non ne conosciamo nessuna), ma presto ne conosceremo tante; e per ora si può dire che gli ebrei (quali? I sefarditi che sono come i curdi, gli ashkenaziti che non lo sono, o tutti quanti?) sono una razza a parte, segnata da una particolare intelligenza, come dimostrato dalla presenza di un sacco di ebrei nelle arti, nella scienza, nella finanza e nell'impresa. Insomma, nel nuovo revival delle razze si parte dalla scienza, o da qualcosa che potrebbe aver a che fare con la scienza, e si arriva a riaffermare gli stereotipi più triti, stavolta con maggior enfasi ma senza portare alcuna evidenza in più: chiacchiere da bar, stavolta condite di sussiego accademico. I neri sono veloci ma stupidi, anche se nella musica bisogna lasciarli stare; gli ebrei sono intelligenti, gli italiani sono anarchici, gli inglesi flemmatici...”
Evitando di sottolineare ancora il livello di stile a cui scende Barbujani per ridicolizzare agli occhi del lettore le opinioni che non condivide, non è nemmeno più il caso di dire che nell’intervista citata nulla si ritrova di ciò che egli vi ha voluto leggere. All’esplicita domanda di Sailer: “Sono gli ebrei una "razza pura" discesa senza commistioni dai primi tempi della Bibbia?”, Entine risponde: “No. Come tutte le popolazioni umane, anch’essi a volte hanno contratto matrimoni fuori dalla comunità. I primi segni di questo sono presenti nella Bibbia stessa. Ad esempio, tra le mogli dei dodici figli di Giacobbe v’erano una cananea e un’egiziana. Mosè sposò una donna madianita e poi una donna kushita. Sansone sposò una filistea. Almeno due antenati femminili non israeliti figurano nella genealogia di re Davide. I matrimoni misti tra samaritani ed ebrei erano comuni. (...) “durante il periodo ellenistico, dopo le conquiste di Alessandro Magno, i matrimoni misti fra ebrei e gentili erano dilaganti. C'è stato sicuramente un ampia "fuoriuscita" di ebrei dalla propria religione, anche se il giudaismo ellenizzato è sopravvissuto.” (...) “Sotto l'Impero Romano, la comunità ebraica in Italia è stata per un certo tempo piuttosto considerevole, con un notevole flusso in entrata e in uscita. Durante il periodo paleocristiano nell'impero romano, maschi ebrei che avevano lasciato il Medio Oriente presero spesso mogli di origine gentile. La loro prole è stata probabilmente il nucleo d’origine degli ebrei Ashkenaziti.” (...) “Vero è che all’incirca al tempo della caduta di Roma, si venne rafforzando il tabù sui matrimoni misti (per volontà sia degli ebrei che dei gentili). Ma la vera cessazione dell’esogamia presso gli ebrei Ashkenaziti non si verificò sino al Medioevo, quando la loro posizione economica e sociale peggiorò notevolmente. Questa tendenza storica si riflette nei dati genetici i quali suggeriscono che il nucleo genetico dei moderni ebrei Ashkenaziti si formò proprio in questo periodo. Il nucleo era costituito per lo più da uomini ebrei con radici mediorientali uniti ad un’alta percentuale di donne gentili locali, con la successiva formazione di comunità ebraiche.” (...) Col crescere delle difficoltà economiche e sociali, questo gruppo misto si è evoluto per diventare il nucleo dell’ebraismo Ashkenazi, con quasi più nessun matrimonio misto con cristiani ... meno della metà dell'1 per cento per ogni generazione, stimano i genetisti. Nel XIX secolo, comunque, la posizione degli ebrei in Europa migliorò considerevolmente, portando ad un ampio numero di matrimoni misti.” (www.upi.com/Odd_News/2003/05/15/QA-...77021053022522/)
Com’è evidente ad ognuno, la tesi di Entine - debba rivelarsi corretta o meno - non presenta comunque nessuna contraddizione: nella loro lunga storia le comunità ebraiche hanno spesso contratto unioni matrimoniali con le popolazioni con le quali venivano in contatto, o hanno visto alcuni loro membri convertirsi ad altre religioni ed entrare dunque in altre comunità, portando con sé il proprio patrimonio genetico. E nondimeno l’antica tradizione endogamica – di cui la Bibbia dà ripetuta testimonianza - non è mai venuta meno, anzi in alcune lunghe epoche di persecuzione è tornata ad essere molto stringente; così essa, limitando di fatto il flusso genico in entrata ed in uscita, ha mantenuto in molti membri di comunità ebraiche un profilo genetico ancor oggi riconoscibile.



Barbujani, Gould e la bolgia di Maestro Adamo.




Abbiamo voluto introdurre subito questa pagina di Barbujani perché - senza affrontare per ora l’aspetto strettamente scientifico di ciò che egli sostiene - può dare al lettore una prima indicazione del grado di accuratezza e di onestà con cui egli riporta le opinioni di coloro che intende confutare, e soprattutto di quale idea egli abbia del tipo di linguaggio e di stile più adeguati con cui rivolgersi al lettore italiano. E sempre in questa chiave vogliamo citare ancora due passi analoghi, anche perché non solo confermano la propensione del Barbujani divulgatore per la corda comica – sempre efficace contro ogni avversario – ma a tratti la estendono anche alla comicità involontaria – fra tutte la più irresistibile.

Non si tratta propriamente qui dello specifico tema delle razze umane, ma più in generale della grande questione che nel mondo anglosassone è stata denominata “Nature-Nurture” , cioè del rispettivo ruolo e dell’interazione che patrimonio genetico ed ambiente hanno nel determinare e modellare le caratteristiche fisiche e psicologiche di ogni individuo umano ed in primis, ovviamente, il suo carattere di animal rationale.
Com’è noto nella seconda metà del ‘900 un tale dibattito ha avuto spiccatissime valenze ideologiche, che certo non pretenderemo di riassumere qui in poche righe. Diciamo soltanto che tutte le correnti di pensiero “progressiste”, convinte cioè della capacità dell’umanità di plasmare e rivoluzionare a proprio criterio l’intero mondo in cui si ritrova a vivere, hanno ovviamente contrastato con l’idea che la natura in sé delle cose - e tanto più quella biologica dell’uomo stesso – possa imporre dei limiti condizionanti, o anche solo interferire significativamente, con siffatta prometeica ambizione. Così nell’ambito del pensiero marxista o di sinistra in generale, così come in alcune correnti della tradizione pragmatista americana – si è sostenuto che l’uomo sia concepibile solo ed esclusivamente all’interno della “storia”, cioè di un mondo che è integralmente suo proprio prodotto: “C'est une idée désormais conquise que l'homme n'a point de nature, mais qu'il a - ou plutôt qu'il est - une histoire”, scrisse per esempio nel 1964 il sociologo marxista Lucien Malson (5). “Give me a child and I'll shape him into anything”, pare abbia detto per parte sua il più celebre degli psicologi comportamentisti, B.J. Skinner. (6)
Oggigiorno queste rodomontate tardo-idealistiche hanno più che altro un simpatico sapore vintage, e certamente meno che mai le potrebbe riprendere tal quali un genetista come Barbujani: “non stiamo dicendo – scrive infatti - che l'intelligenza, qualunque cosa essa sia, è indipendente dai nostri geni. Anzi, si può sostenere ragionevolmente che nulla di quello che siamo è indipendente dai nostri geni, e vale anche per le nostre capacità cognitive. Il nostro corpo, la nostra mente, e il loro funzionamento, dipendono dai geni che ciascuno di noi possiede, che non sono identici in tutta l'umanità. Questi geni definiscono quello che possiamo essere, sia in termini fisici che psichici; quello che siamo in effetti dipende però dalla loro interazione con moltissimi altri fattori.” (2008a)

Ciò non toglie tuttavia che l’aver dovuto abbandonare – sulla base di evidenze scientifiche ormai incontenibili – il mito storicista dell’autopoiesi dell’umanità, ha presentato non pochi problemi al pensiero di sinistra e nella fattispecie a coloro che hanno cercato di fare della biologia non soltanto un campo di ricerca puramente scientifica, ma anche in seconda battuta un puntello alle proprie convinzioni “magnifiche e progressive”.
Come ognuno vede, la vecchia idea di una totale plasticità dell’individuo alle influenze ambientali spianava una via facile e diritta. Essa consentiva di prefigurare una soluzione, fosse pure semplicemente verbalistica, all’eterno problema della ‘giustizia’ e dell’’uguaglianza’. Ogni presente disparità tra i destini personali si potrà sempre attribuire ad una sperequazione di natura sociale; e come le ingiustizie sociali sono un prodotto dell’agire umano, così anche il loro superamento potrà essere operato dagli uomini - da quelli a ciò predestinati, ovviamente. Nel momento in cui invece fosse determinante anche l’indifferente casualità di un “natural lottery”, è evidente che le diseguaglianze potrebbero essere in parte compensate nei loro effetti, ma mai sparire nella sostanza. E l’empito morale degli egualitari ha anche, come ben si sa, una forte componente estetizzante, che poco s’appaga di toppe e di rammendi.
Così, la tendenza della natura a distribuire i talenti in totale dispregio del precetto dell’uguaglianza ed il fatto che lo stesso suo meccanismo di fondo sia anzi quello di creare incessantemente ‘diversità’ per metterle spietatamente a confronto nel cimento con la realtà – non ha smesso di scandalizzare i più sensibili.
Come ha affermato tipicamente C. Jencks: “L’idea sembra essere che l’ineguaglianza nel vantaggio genetico sia moralmente accettabile, mentre quella basata su altri accidenti di nascita [quelli di collocazione sociale, per es.] non lo sia. Molti educatori e giuristi ritengono evidentemente che i geni di un individuo sono “suoi”, e che dunque egli abbia diritto a trarre da essi qualsivoglia vantaggio gli riesca. La famiglia in cui è nato, invece, non è “sua” nello stesso senso, e non deve quindi valergli dei particolari favori. Ad un egualitario coerente, comunque, l’ineguaglianza che deriva dalla biologia dovrà apparire non meno ripugnante [repulsive] di quella che deriva dai fatti sociali.” (7)
Analoghe espressioni contro le spregevoli propensioni di Mother Nature non si contano - dall’accusa di “arbitrarietà dal punto di vista morale” fatta da J. Rawls (8), al carattere di “brute luck” denunciato da R. Dworkin, (9) all’uso del termine “exploitation” a cui è arrivato un B. Ackerman (10).

Su affermazioni del genere e sull’ineffabile presunzione antropocentrica che testimoniano, dovremo senz’altro tornare e con maggiore ampiezza. Qui si vorrebbe semplicemente commentare che siffatta frontiera estrema, comunque, non è decisamente territorio da tutti i cuori. Non è certo facile impostare e sviluppare un ragionamento etico che cominci a sindacare e contrastare con la stessa fondamentale legge che governa il mondo vivente. Già lo sproposito è in agguato per il più esperto e ferrato dei filosofi morali e dei teorici del diritto - tanto più sarebbe in generale il caso che trattenessero il piede gli scienziati da laboratorio.

Il fatto, tuttavia, è che se anche sennatamente si rinunci ad espugnare il roccioso problema con un assalto generale sul piano filosofico, sarà pur sempre necessario elaborare strategie alternative che possano disinnescare o dissimulare la difficoltà nell’ambito più propriamente scientifico, in particolare in quello divulgativo. Le soluzioni che il pensiero biologicamente-corretto ha dovuto tentare all’uopo hanno dovuto quindi seguire nuovi sentieri, spesso non poco tortuosi.

Alcune delle soluzioni che più si sono rivelate efficaci sono state quelle rubricabili sotto la magica parola “pluralismo” (di cui in Italia è paladino Telmo Pievani), basate sulla disponibilità di tutta una nuova serie di concetti - evo-devo, plasticità fenotipica, vincoli morfologici, fattori epigenetici, etc. – che negli ultimi anni la ricerca biologica sul campo ha elaborato per avere un quadro sempre più analitico e dettagliato dei fenomeni della vita. Si tratta beninteso, di concetti per lo più fondati e che quindi in quanto tali non hanno alcuna difficoltà ad inserirsi nel quadro del darwinismo. Di conseguenza rispetto allo “scandalo morale” dell’ingiustizia distributiva che è nel suo stesso cuore, assolutamente nulla rilevano. Sottolineare - solo per fare un esempio - l’importanza dei vincoli morfologici, come nel cosiddetto evo-devo, non ha alcuna valenza ad attenuare il finale protagonismo del vaglio selettivo. Così come i fattori epigenetici non hanno potuto in alcun modo reintrodurre concetti di tipo neolamarckiano, i quali realmente costituirebbero una controrivoluzione filosofica rispetto al meccanismo darwiniano.
Nondimeno nella divulgazione del biologicamente-corretto essi – accortamente utilizzati – non mancano di una qualche utilità pratica. Se nella sostanza delle cose non possono neanche scalfire il problema etico del darwinismo – almeno, accortamente affastellati attorno al moloch, possono con la loro pittoresca varietà coprirne in qualche modo le pudenda morali, e come le mille strisce delle zebre in fuga, in qualche modo confondere l’occhio dell’osservatore.

Un’altra fondamentale risorsa, per quanto ancor più traballante, è quella di ammettere alla buon’ora l’esistenza negli esseri umani di un’importante variabilità genetica, ma di limitarne la rilevanza al livello rigidamente individuale.
Sulle prime una tale soluzione potrebbe sembrare poco efficace nel tradizionale discorso etico, che tratta dei temi della giustizia e dell’eguaglianza anche, se non soprattutto, sul piano individuale. Abbiamo citato poco sopra alcuni teorici del diritto che si dolevano appunto della dolorosa sperequazione dei talenti innati fra individuo ed individuo. Tuttavia per il biologicamente-corretto, in attesa che qualcuno abbia ragione anche di simile crucciosa questione, almeno una seconda fila di trincee dev’essere difesa ad ogni patto. Diviene cioè imperativo evitare in ogni caso ed in modo assoluto che, in virtù del raggruppamento dei singoli diversi valori individuali in distribuzioni statistiche ‘normali’ – il “Bell curve” per intendersi – si giunga poi a certificare una divisione dell’umanità per gruppi diversamente caratterizzati da un punto di vista genetico, rischiando così di aprire il passo a discorsi di tipo razziale. In altre parole, ci si può anche rassegnare ad ammettere che in base al proprio patrimonio genetico l’individuo X sia dotato di maggiori capacità intellettive – o di una maggiore capacità atletica – rispetto all’individuo Y. Quel che però si deve assolutamente evitare è che, distinti secondo un qualsivoglia criterio, per esempio di localizzazione geografica degli ascendenti, siffatti valori individuali diano luogo a differenti valori medi e tra le due assi cartesiane non si succedano punti a casaccio, ma prenda forma il regolare e funesto profilo di una campana a morto.
Insomma, gli unici “quantificatori” ammissibili devono essere solo due: l’umanità tutta nella sua unità di specie, ed i singoli individui, e siano pure “diversi” l’uno dall’altro. Tutti i raggruppamenti intermedi potranno essere dichiarati allora esclusivamente “social constructs”, e dunque, se anche esistenti al presente, certamente eliminabili in futuro con gli adeguati interventi politici. Proprio a questo, sia detto per inciso, dobbiamo oggi la continua presenza in certa divulgazione della retorica dell’”è vero: siamo tanto tanto diversi dal punto di vista genetico - ma come individui, badate, e mai come gruppi”.

Come già s’è detto, dovremo ritornare su questi punti rilevantissimi, per allargare adeguatamente i riferimenti bibliografici. Ciò che solo si doveva precisare qui in rapporto ai testi di Barbujani (quelli divulgativi ovviamente) è che comunque di tutte queste complesse e tortuose questioni, assai poco vi si ritrova, almeno in termini espliciti.
Per quel che concerne le questioni filosofiche ed etiche più generali, Barbujani – gli va riconosciuto – si guarda bene dall’affondarvi lo scandaglio, e mantiene il suo discorso, anche quando si fa scopertamente ideologico, su di un piano assai più elementare e discorsivo. Per dar vigore ai propri argomenti nel campo della teoria politica di fronte al lettore medio italiano, egli ritiene assai più appropriato commentare qualche cronaca giornalistica sul leghista Borghezio che non avventurarsi negli scritti di Thomas Hobbes o di John Rawls.
Ma anche per quel che riguarda lo stesso ambito propriamente biologico - in cui ovviamente avrebbe avuto tutti gli strumenti per tentare un’illustrazione dell’ampia panoplia di nuovi concetti - Barbujani opta per uno schema di gran lunga più rudimentale: considerato che, pur essendo possibile una certa ereditabilità senza razzismo, resta pur sempre indiscutibilmente vero che non può esserci razzismo senza una forte ereditabilità - nel rapporto fra nature e nurture sarà in ogni caso opportuno valorizzare sistematicamente il ruolo del secondo a discapito del primo. Nell’acqua dell’ereditabilità infatti si può anche tentare, come s’è visto, di far sopravvivere qualche simpatico pesce rosso - ma certo più il suo livello s’abbassa e più il nero piranha del razzismo si riduce a boccheggiare. E per il lettore italiano tanto dovrà bastare, senza andare al risico di confondergli le idee con un eccesso di troppo raffinati “pluralismi”.

Su questa base non ci si meraviglierà allora se per Barbujani l’importanza della componente genetica nel plasmare gli individui umani, validissima come idea generale nelle enunciazioni di principio – “buona, ottima e di giusto peso sul pulpito” avrebbe detto un celebre avvocato manzoniano – “non valga niente, sia detto col dovuto rispetto”, ogni volta che qualcuno si tenti d’applicarla a qualche fattispecie più concreta e circoscritta. Non solo perché in genere è sempre “troppo presto” rispetto allo stato delle attuali conoscenze scientifiche, ma soprattutto perché una malasorte accanita fa sì che a provarci alla fin fine debbano essere sempre per lo più dilettanti, cialtroni, se non addirittura – come ora vedremo – dei veri e propri “farabutti”.
S’è visto per esempio che l’idea che i talenti atletici possano essere significativamente condizionati dalla genetica, alla fin fine non viene del tutto esclusa da Barbujani. Disdetta ha voluto tuttavia che a scriverci concretamente un libro sia poi stato “un qualunque Entine”, con il ritorno in cucina del cui “minestrone” la questione deve darsi per sostanzialmente archiviata.

Anche nell’ambito, ben più rilevante, dell’ereditabilità dell’intelligenza, la posizione di Barbujani è del tutto analoga: da un lato abbondano le cautele e le concessioni - i “prima o poi penso che scopriremo”, i “riparliamone allora”, i “vedremo se salterà fuori”, i “finiremo per capirci di più un po' alla volta però” così come peraltro gli “scommetto di no”. Dall’altro però la letteratura che si prende in esame, per cominciare a farsi un’opinione prima che la scienza scopra le carte, disgraziatamente presenta ai lettori sempre lo stesso panorama di vecchie torri diroccate e di torvi straw men a nidificare.

Chiunque conosca un po’ di letteratura, anche in modo del tutto superficiale, o anche solo faccia ricorso al buon senso per indovinare, può ben immaginare se l’intelligenza sia stata o meno oggetto di intense ricerche da parte della psicologia e delle altre scienze che studiano l’uomo. Non esiste altro argomento che abbia accumulato una massa comparabile di ricerche empiriche e di teorie interpretative. Ciò considerato nessuno può scandalizzarsi se Barbujani nell’introdurre un simile argomento in un saggio divulgativo rivolto al pubblico più ampio, sia stato costretto ad una sintesi estremamente drastica ed a ridurre l’immenso edificio teorico e sperimentale che si è costruito attorno al tema, ad un piccolo castello fatto solo di qualche carta. Proprio per questo però – verrebbe fatto di pensare - quelle poche carte, quei pochi nomi, verranno scelti con particolare cura, facendo ricorso innanzitutto alle ricerche più recenti ad aggiornate. Se infatti ancora ignoriamo tanti dati fondamentali, non si può certo dire però che la ricerca sia rimasta del tutto sterile e non abbia cominciato a dare qualche indicazione, se non qualche verdetto.

Bene. Il primo testo che Barbujani introduce al nostro lettore per delineare l’attuale frontiera delle conoscenze sull’intelligenza umana è un’opera pubblicata dall’antropologo americano Samuel George Morton nell’anno 1839. Costui volle dimostrare il primato degli europei fra le razze umane – a cui credeva come la gran parte dei suoi contemporanei – mostrando che il loro volume endocranico è in media superiore a quello delle altre popolazioni, le quali su questo parametro si dispongono in una scala discendente che si conclude con gli aborigeni australiani. A tal fine - scrive Barbujani - “Morton raccoglie una grande collezione di reperti ossei ed escogita una tecnica ingegnosa per studiarli: pratica un forellino nel cranio e da lì lo riempie di semi di senape, e in seguito di palline di piombo per misurazioni ancora più precise; quando il cranio è ben pieno lo svuota in un recipiente e misura il volume occupato da semi o palline. I risultati, alla fine, confermano le sue attese.” (2008a)
Ora - anche a prescindere dalla totale ingenuità di un Morton che dopo anni di studi anatomici a dir di Barbujani ancora “praticava forellini” nei crani, senza essersi mai accorto che rovesciandoli semplicemente avrebbe trovato un foramen magnum già bell’e praticato – certamente ogni lettore concorderà sullo scarso interesse per l’oggi di simili ricerche. E’ del tutto evidente che il rapporto fra volume del cervello e intelligenza è relativo (per quanto tutt’altro che inesistente. 11). Tanto più in quanto Morton per parte sua non aveva chiara notizia né dell’età, né del sesso di molti dei suoi esemplari, e dunque non poté tenerne adeguato conto. Proprio per questo però il lettore sarà portato a chiedersi che senso abbia affrontare negli anni Duemila il tema cruciale delle eventuali basi genetiche dell’intelligenza umana, dilungandosi ad irridere i forellini ed i semi di senape a cui doveva ricorrere un uomo di scienza nato nell’anno domini 1799.

Una medesima domanda il lettore ingenuo se la porrà quando in entrambe i saggi di Barbujani vede spuntare il nome di sir Cyril Burt, psicologo britannico nato nel 1883. Costui fu il primo a condurre ricerche sulle capacità intellettive dei gemelli monozigoti allevati in ambienti separati, sostenendo di aver riscontrato un alto grado di correlazione – risultato che avvalorava, com’è evidente, la forte determinazione genetica dell’intelligenza rispetto al condizionamento ambientale. I suoi studi cominciarono ad esser pubblicati già negli anni ’30.

Ora, si potrà pensare che il richiamo a questi due autori, nati rispettivamente 207 e 123 anni prima della compilazione del saggio di Barbujani, sia solo l’introduzione storica che fa da prodromo ad un’analisi ben più ampia dell’attuale stato della ricerca, anche considerato che, come lui stesso rileva, “sul valore e sui limiti del quoziente d'intelligenza la letteratura è sterminata.” Purtroppo però, il lettore resterà deluso: con questi due autori (e con un paio d’altri più recenti su cui si ritornerà) si ritiene praticamente concluso l’excursus storico e, stante la necessità di sintesi di cui sopra, è senz’altro data per letta la “sterminata letteratura” sull’intelligenza degli ultimi cinquant’anni.
D’altronde a tratti si ha quasi la sensazione che Barbujani consideri un simile campo non più proficuamente coltivabile, impestato com’è in modo irredimibile da un peccato originale commesso proprio dal suddetto Cyril Burt: “Le nostre capacità cognitive hanno di sicuro una componente ereditaria, ma l'idea che questa componente sia fortissima deriva in larga misura da una frode scientifica. Sir Cyril Burt, negli anni cinquanta, lo ha sostenuto sulla base di studi sui gemelli, in seguito citati da quasi tutti i testi universitari di genetica, ma è provato che ha manomesso o si è inventato i dati.”

Dunque ancora una volta, se da un lato la presenza di una componente ereditaria delle nostre facoltà cognitive è data per “sicura”- anche se comunque destinata ad essere scoperta in data ancora da definire - dall’altro però essa non potrà mai essere “fortissima”, per il semplice motivo che a condividere questa convinzione alla metà del secolo scorso sia stato malauguratamente anche un “farabutto” - quale Barbujani esplicitamente definisce Burt (2008a). Come detto infatti, “quei risultati Cyril Burt se li era inventati. Si era inventato addirittura i due collaboratori, Margaret Howard e Jane Conway, che firmavano con lui gli articoli in questione.”

Nel trattare i casi di Morton e Burt, una nota di Barbujani rimanda il lettore ad un libro del 1981 del paleontologo Stephen Jay Gould, “The Mismeasure of Man”. In quest’opera Gould - massima icona, con Richard Lewontin, del biologicamente-corretto – cercò di dimostrare come le teorie che in passato hanno sostenuto la determinazione genetica di importanti facoltà della mente umana – innanzitutto l’intelligenza - raccontino tutte una storia intessuta per lo più di pregiudizi, di travisamenti, se non, in alcuni casi, di vere e proprie frodi. Quelli su Samuel Morton e Cyril Burt sono appunto due dei capitoli più ampi del famoso saggio gouldiano.

Falsificare i dati, come ognuno può capire, è l’atto più grave e squalificante di cui possa rendersi colpevole uno scienziato. Esso introduce nella comune ricerca della conoscenza non solo l’inciampo dell’errore, ma anche il veleno del sospetto, della calunnia, del personalismo. Rinfocola le sterili guerre del pregiudizio e spinge alla denigrazione personale più che alla confutazione ragionata di chi la pensa diversamente.
Tutto starà sempre, beninteso, a stabilire in modo realmente imparziale chi abbia falsificato e che cosa. Nel corso degli anni, soprattutto da quando uscì il libro di Gould, s’è continuato infatti a ripensare a quei due presunti casi di frode, e tanto crudamente se n’è sofferto, che alcuni ricercatori hanno voluto sincerarsi più per minuto a quale grado fosse davvero arrivata la disonestà di Morton e di Burt.

Caso vuole che la famosa collezione di quasi 1000 crani messa insieme da Morton, ai suoi tempi unica al mondo - “American Golgotha” fu definita—, sia stata da lui legata alla Università della Pennsylvania, in cui aveva insegnato anatomia, e da questa gelosamente custodita sino ad oggi. E’ stato quindi possibile di recente ad un gruppo di antropologi di quella università di procedere ad una nuova misurazione. (12) Il risultato ha messo in luce come i dati pubblicati a suo tempo da Morton fossero assolutamente onesti e ad avere alcuni aspetti alquanto discutibili siano state piuttosto le successive accuse mosse da Gould. “I nostri risultati - scrivono Lewis et al. - smentiscono l'ipotesi di Gould che Morton abbia manipolato le misurazioni per conformarle ai propri pregiudizi. I dati sulla capacità cranica raccolti da Morton sono generalmente affidabili, ed egli li presenta in modo completo. (...) La nostra analisi delle affermazioni di Gould rivela che molte delle sue accuse sono poco motivate o sono dei falsi. E’ dubbio che Morton abbia equiparato capacità cranica ed intelligenza, e dunque non si comprende perché avrebbe dovuto manipolare i dati relativi. (...) Dei circa sette errori minori ritrovati da Gould nel lavoro di Morton, solo due appaiono realmente come tali, ed il loro effetto complessivo è di indebolire piuttosto che avvalorare la classificazione aprioristica che gli viene imputata.”

Per onestà va precisato che Gould non accusava Morton di aver intenzionalmente “mismeasured” i crani della sua collezione, né in verità a nessun titolo avrebbe potuto farlo, visto che per parte sua non effettuò alcuna personale nuova misurazione e dovette quindi dare per buoni i dati di Morton. Le sue critiche riguardavano piuttosto la loro successiva elaborazione, la mancata ponderazione di ogni misura in base all’età, al sesso ed alle dimensioni corporee, così come la rappresentatività dei campioni per ogni popolazione. Erano critiche in parte corrette ma che avrebbero dovuto tener conto innanzitutto della difficoltà dell’impresa e dell’arretratezza degli strumenti del tempo, e che in nessun modo potevano giustificare illazioni sulla persona di Morton. Ma quest’ultimo - ahimè per lui - era convinto dell’esistenza reale delle razze umane ed anche di una loro gerarchia, e quindi non solo aveva idee scientifiche errate, ma doveva obbligatoriamente soffrire anche di qualche interiore magagna caratteriale. Così Gould fissò la sua attenzione su un particolare minore: sul fatto cioè che la prima misurazione condotta con grani di senape - più imprecisa – sembrava aver portato ad una certa sopravvalutazione dei crani europei rispetto al quadro scaturito dalla successiva e più accurata misurazione effettuata con pallini di piombo (errore sistematico che comunque Lewis et al. smentiscono come insussistente in base alle loro risultanze. 13). Ora, visto che – se anche tutto ciò fosse vero - tale seconda misurazione fu voluta da Morton stesso e da lui personalmente eseguita dopo aver allontanato i precedenti inadeguati collaboratori, sembrerebbe impossibile trarne motivo di sospetto, anzi dovrebbe valergli dal punto di vista personale il più ampio credito di onestà. Ma non per il fiuto finissimo di Gould: la presunta “concordia discors” fra le misure ottenute con i due metodi gli fu sufficiente infatti per allestire un suo teatrino del tutto immaginario di “plausible scenarios easy to construct“ in base ai quali strologava che quando il Morton della fase dei semi di senape aveva tra le mani “un cranio di nero terribilmente grande, lo riempiva senza pigiare e lo scuoteva appena”, mentre quando si trattava del “un cranio di bianco penosamente piccolo, lo scuoteva energicamente e pressava con forza con il pollice nel foramen magnum.” (14), - tendenziosità ideologica inconscia da cui s'era incontanente ridestato, redimendosi poi col nuovo metodo dei pallini di piombo.
Così, in un modo o nell’altro, Gould si ritenne autorizzato su questa solida base ad accusare Morton di aver composto, sia pur condottovi da fantasmi interiori come una Lady Macbeth, “un mosaico di fandonie e mistificazioni [fudging and finagling] nel chiaro interesse di verificare convinzioni aprioristiche.” (p. 70)

Ironia volle però che - mentre con tanta penetrazione sondava i recessi del subcosciente di Samuel Morton e con tanto rigore ne ricontrollava le cifre - Gould allentasse disgraziatamente la sorveglianza sui calcoli suoi propri e, come per primo gli fece notare un neolaureato impertinente, sbagliasse a sua volta a calcolare una delle medie dei crani a causa - si scusò poi - di una macchia di inchiostro...
Come l’antropologo Loring Brace ebbe a commentare - Gould “accusò Morton di essersi servito di un misto di fandonie e mistificazioni col chiaro fine di confermare delle convinzioni a priori. L’aspetto ironico di questa accusa è che si adatta assai più al modo in cui Gould ha trattato Morton che non al modo in cui Morton ha trattato i dati. Le misure di Morton sono state ricontrollate ed i suoi esemplari rimisurati (...) e, a parte alcune imprecisioni minori, dovute più che altro al fatto che Morton non disponeva di macchinari per il calcolo, il suo lavoro si è dimostrato obiettivo e affidabile. Per quanto invece riguarda l’errore di Gould, fino a che a parlarne fu un semplice studente egli non se ne diede per inteso, e finì coll’ammetterlo soltanto quando fu notato anche da un collega. Il fatto era – egli allora osservò – che aveva tratto i dati di Morton da una fotocopia Xerox. (...) Come Gould disse: “La ragione di questo mio errore è imbarazzante. … Non ho mai visto l’errore presumibilmente perché il basso valore di 80 si adattava meglio alle mie aspettative.” (...) Ciononostante Gould ha continuato ad accusare Morton di frode anche nella successiva edizione riveduta del suo Mismeasure of Man, senza menzionare il fatto che egli stesso in precedenza aveva dovuto ammettere che era il suo lavoro e non quello di Morton, ad essere un esempio inconsapevole di "fandonia e mistificazione”.” (15)

Come ben si vede, commentando questo suo grottesco infortunio, Gould cercò d’uscirne comunque a bene, ostendando disinvoltura e volgendo il tutto ancora a pro della sua tesi: “La ragione di questo errore è imbarazzante ma istruttivo, perché illustra a mie spese, il fondamentale assunto di questo libro: il condizionamento sociale della scienza ed il frequente prevalere dei preconcetti sulla presunta obbiettività.” (p. 81) Insomma - par di capire – Gould si reputava senz’altro di quella fortunata schiera d’eletti ai quali era rivolto il detto paolino ”omnia munda mundis”
In realtà, però, nemmeno questa goffa scappatoia gli andrebbe concessa. Non è infatti per nulla vero che quel suo libro abbia mai avuto come scopo quello di dimostrare in termini generali l’influenza di tutti i pregiudizi sul corso della scienza. Se così fosse stato realmente, a fronte del caso di Samuel Morton avrebbe potuto ricordare – per fare giusto qualche esempio - quello del venerato padre dell’antropologia liberal americana, Franz Boas, anch’esso relativo ad una falsificazione - ed assai più verisimile - di dati craniometrici. (16) Oppure al nome di Cyril Burt contrapporre quello di un farabutto legalmente certificato come il Prof. Rick Heber ed il suo Milwaukee Project, esempio tipico di correttezza politica e di scorrettezza etica, conclusosi dietro le sbarre di una prigione - caso all’incirca coevo a quello di Burt, ed anch’esso avente come tema l’ereditabilità o meno del Q.I. (17) Di queste e di similari vicende nulla però s’accenna. O meglio, un solo, piccolo e non voluto esempio se ne ritrova: quello, appunto, …“at his expense”.
Il fatto è che i pregiudizi che Gould intendeva denunciare e mettere alla berlina dovevano essere sempre ben precisi e circostanziati, e tali da convergere tutti su una tesi precostituita sin dall’inizio: e cioè che il fatale trionfo dell’ideologia egualitaria liberal e dell’unità di Verum, Bonum Pulchrumque che la deve sostanziare, non mai potrà trovare contraddizione ed ostacolo semplicemente nel fatto che la natura, magari, si fonda su princìpi differenti - ma unicamente ad opera delle falsificazioni sordide di qualche manica di reazionari.

Certo, vista l’atmosfera che si respira in certi contesti, non si può escludere del tutto che un nuovo studio venga a dimostrare che il team della Pennsylvania abbia a sua volta manomesso i dati per poter accusare Gould di aver ingiustamente imputato Morton di aver falsificato le misurazioni. Tutto è possibile. Chiosiamo allora che la lezione da trarne ancora una volta è che noi tutti lettori possiamo senz’altro presupporre nei cattedratici titolati un’alta competenza nel loro specifico e delimitato ambito di specializzazione, ma che della loro buona fede e della loro onestà intellettuale quando si impancano a divulgatori e maestri di vita non c’è garanzia alcuna e che anzi più che mai è necessario, con i precedenti che vediamo, stare sempre con la guardia particolarmente alta e cercare di capire innanzitutto con la propria testa, senza preoccuparsi di passar da presuntuosi.

La cosa parrebbe confermata anche nella vicenda del “farabutto” Cyril Burt. Qui, com’è ovvio, un nuovo controllo diretto non è stato possibile, non potendosi più sottoporre a test i medesimi soggetti che egli aveva preso in esame, né potendosi ricontrollare i protocolli originali, andati persi. Quindi sull’eventuale falsificazione non può esserci alcuna prova diretta, né a favore né contro. Certamente solleva grandi e legittimi dubbi – anzi può essere escluso con certezza - che egli abbia mai potuto disporre realmente di 53 coppie di gemelli monozigotici allevati separatamente – numero nemmeno lontanamente avvicinato da ogni altro singolo studio comparabile, almeno sino a tempi recenti, stante l’estrema rarità di simili casi. Un altro particolare che ha destato sospetto è che il coefficiente di correlazione fra l’intelligenza dei gemelli, calcolato da Burt a 0,771, sia rimasto invariato al terzo decimale in tre articoli diversi, cosa statisticamente pressoché impossibile. Inoltre, come s’è visto, c’era la strana irreperibilità di alcune sue collaboratrici degli anni ’40. Già questo insomma impone di lasciar oramai del tutto da parte i suoi studi e di non tenerne più alcun conto in sede scientifica.
Il commento di Barbujani è severo: “Anche oggi che la frode di Cyril Burt è provata, molti continuano a credere alle sue conclusioni, e molti libri le riportano come se niente fosse successo nel frattempo.”(2008a)

Ecco: al lettore ingenuo certamente nascerà la curiosità di sapere appunto “cosa sia successo nel frattempo”. Se cioè, oltre alla presunta imperterrita ristampa degli scritti di Burt, non vi sia stato anche qualche altro ricercatore, del tutto indipendente, che ne abbia ripetuto, e quindi controllato, gli esperimenti. Come si può immaginare infatti, dagli anni ’40 in poi altre coppie di gemelli monozigoti sono venute alla luce e quindi anche gli studi su di esse, lungi dall’essersi fermati con il presunto falsario inglese, sono stati più volte replicati. A questo punto un costante e forte scostamento nei risultati darebbe la vera prova definitiva della malafede di Burt, ben al di là delle bagatelle sull’effettivo numero dei casi studiati, sulle terze cifre decimali o sulle collaboratrici inventate.
E’ lo stesso Barbujani – sia pur in tutt’altro contesto – a sottolineare questo punto con la massima enfasi: “Attenzione però: una misurazione è scientifica se è ripetibile. Due diversi ricercatori che studino la stessa quantità, devono arrivare a misure uguali o molto simili, se no vuol dire che nei loro calcoli ci sono elementi di soggettività che bisogna eliminare, pena sconfinare dalla scienza nella pseudoscienza.” (2008a).

Bene, ciò che si appura al riguardo – e di cui ovviamente Barbujani ritiene superfluo informare i propri lettori - è che pressoché tutti gli studi successivi hanno largamente confermato i dati a suo tempo ottenuti da Burt, sempre fornendo, appunto, “misure uguali o molto simili”. La stima da lui fatta, come s’è visto, fu di circa 0,77 per i gemelli monozigoti allevati separatamente (si tenga presente che la correlazione massima è pari a 1, mentre l’assenza di correlazione è pari a 0). Un saggio del 2009 dello psicologo statunitense Alan S. Kaufman – uno dei massimi esperti del settore - riporta i seguenti valori medi “basati su dati accumulati da numerosi studi durante l’ultimo secolo”: “gemelli monozigoti allevati insieme = 0,86: gemelli monozigoti allevati separatamente = 0,76; gemelli dizigoti allevati insieme = 0,55; bambini non imparentati allevati insieme = 0,30.” (18) Come ebbe a commentare sarcasticamente lo psicologo A. Jensen: “In base a questi recenti studi parrebbe proprio che se Burt inventò i suoi dati, almeno lo fece con una chiaroveggenza singolarissima.” (19).

Ora, se il fine era quello di informare il lettore italiano sulle attuali risultanze circa la determinazione genetica dell’intelligenza, non sarebbe stato più opportuno citare e commentare questa semplice e recente tabella - o anche altre analoghe, magari di segno contrario (se ne esistono) - piuttosto che insistere così tanto a dare del farabutto a Cyril Burt a mezzo secolo dalla sua morte?
La domanda può apparire del tutto legittima, ma deve anche scontare molta finta ingenuità: è infatti del tutto evidente che qui, come in gran parte dei saggi di Barbujani, il ricorso sistematico alla personalizzazione, al linguaggio denigratorio, al dileggio, al vero e proprio insulto (a cui un Gould non ebbe mai il cattivo gusto di trascendere) hanno uno scopo ben preciso: piuttosto che sollecitare i lettori italiani ad una fredda intelligenza dei dati di fatto, Barbujani cerca invece se possibile di innescarne il riflesso plebeo e teppistico, additando alla piazza il nemico da odiare. E così, invece di troppi dati e tabelle, meglio restare ad uno schemino lineare e diretto ed assai più efficace: la limpida tenzone fra l’intellettuale magnifico e progressivo in alto a sinistra versus il farabutto reazionario in basso a destra.

D’altra parte tutta l’operazione condotta attorno al nome di Burt poco dopo la sua morte, nacque sin dall’origine con questo scopo, anche se in genere con uno stile meno volgare. Né, in mancanza d’altro materiale, è ancora possibile rinunciarvi del tutto. Come hanno scritto gli psicologi P.G. Caryl e I.J. Deary: “Il nome di Cyril Burt è ancor oggi strumentalizzato per conferire un cattivo odore anche a ricerche del tutto indipendenti dalle sue.” (20)
Così - giusto per fare ancora una piccola citazione – non cessano di sbocciare splendidi esempi di consecutio logica, come quello, sostanzialmente analogo al ragionamento di Barbujani, d’un recente saggio di C. Hilliard, brillante storica liberal: “Sir Cyril Burt non potè aver realmente studiato 53 coppie di gemelli monozigoti allevati separatamente. I suoi coefficienti di correlazione non potevano essere i medesimi via via che cresceva il numero di casi studiati. Sembra che avesse inventato le sue collaboratrici, Miss Howard e Miss Conway. La controversia su Burt ancora infuria nell’ambiente della psicologia inglese, ma nessuno dubita che Burt non scoprì quello che affermò di aver scoperto.” (21)
Insomma, parrebbe proprio che in base ai canoni epistemologici di questi campioni del biologicamente-corretto, per appurare se le idee di Cyril Burt sui gemelli siano valide o meno, non si debbano approfondire gli studi sui gemelli, ma sia sufficiente approfondire gli studi su Cyril Burt.
Che dire? …Aristotelismi di ritorno.

Tanto più grottesca apparirà allora l’affermazione più volte ripetuta da Barbujani secondo cui le tesi di Burt sarebbero citate “da quasi tutti i testi universitari di genetica”, così che “molti libri le riportano come se niente fosse successo nel frattempo” e “molti continuano a credere alle sue conclusioni” (2008a). La verità facilmente constatabile è tutt’altra: e cioè che da quando fu montata la campagna per dare del farabutto a Burt, pressoché tutti gli specialisti concretamente impegnati in questo settore di ricerca, si sono guardati dal ricordare ancora quello che era pur stato uno dei maggiori psicologi del suo tempo. Nella letteratura specialistica il suo nome è totalmente sparito e si fa scrupolosa attenzione ad non offrire nemmeno la minima occasione di sospetto: “Un autorevole ricercatore – ricorda ancora Jensen - mi raccontò ridendo che quando lui ed i suoi collaboratori misurarono la correlazione del Q.I. dei gemelli monozigoti allevati separatamente, furono dannatamente felici [grateful as hell] che essa risultasse di 0,78 e non proprio di 0,77!” (22)
In realtà gli unici che ancor oggi continuano senza posa a tirare in ballo il nome di Cyril Burt sono quasi soltanto coloro che, come Barbujani, se ne devono servire strumentalmente per farci un po’ di facile pesca a pro delle loro campagne ideologiche. Salvo poi – beninteso - amaramente lagnarsi che ancora si voglia insistere a parlarne così tanto ed in così tanti libri!…

Anche per quel che riguarda l’invenzione da parte di Burt delle sue collaboratrici (in realtà di una soltanto, la cui esistenza peraltro è stata poi sostenuta da altri testimoni), si trattò di un’accusa fatta da un giornalista, Olivier Gillie, che a suo tempo non era riuscito a rintracciarle e poi rilanciata a cascata come fatto accertato nelle rapide inesorabili della pubblicistica liberal. Quel che in ogni caso appare verosimile è che Burt abbia usato nomi di collaboratori su alcuni articoli in realtà stati scritti per lo più da lui stesso. …Nefarium scelus che comprensibilmente non potrà non sconvolgere la sensibilità di qualsivoglia cattedratico del nostro e d’altri paesi.

Il commento finale di Barbujani a questa triste storia di malafede e parzialità, è solennemente amaro: “Perché certe convinzioni sopravvivono alla loro disfatta, perché persistono anche quando non sono più razionalmente difendibili? Chissà, forse pensare: “Se i fatti non confermano i miei pregiudizi, al diavolo i fatti”, non è solo una personale stortura di Sir Cyril Burt, ma un meccanismo mentale profondo, conservatore, un arroccamento che forse ci dà l'illusione di proteggerci. Forse.”

Non si può che concordare. Come qualcuno si possa ridurre a distorcere così spudoratamente i fatti per dare maggiore sostanza ai propri preconcetti ideologici, è in effetti interrogativo che i libri divulgativi del professor Barbujani vanno di continuo sollevando ed agitando nella mente di chiunque li legga e li studi con l’attenzione che meritano.

Guido De Pascale.

(Continua).

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(5). Malson, L., Les enfants sauvages, p. 7.
(6). Parrebbe che questa citazione, peraltro assai famosa, derivi da un’intervista di Skinner del 1960 che però non siamo riusciti a ritrovare; la riportiamo quindi con beneficio d’inventario.
(7). Jencks, C. et al., Inequality. A Reassessment of the Effect of Family and Schooling in America, 1975, p. 173.
(8). Rawls, J., A Theory of Justice, rev. ed. 1999, p. 64.
(9). Dworkin, R. “What is Equality? Part 2: Equality of Resources,” http://libgen.in/scimag/get.php?doi=10.2307%2F2265047
(10). B. A. Ackerman, Social Justice in the Liberal State, 1980, p. 267.
(11). In un articolo del 1974 L. Van Valen indicò un coefficiente di correlazione di 0.30, cfr. http://libgen.in/scimag/get.php?doi=10.100...ajpa.1330400314.
(12). Jason E. Lewis et al., The Mismeasure of Science: Stephen Jay Gould versus Samuel George Morton on Skulls and Bias, 2011. http://journals.plos.org/plosbiology/artic...al.pbio.1001071)
(13). Scrivono Lewis et al.: “Se fosse corretta l'ipotesi di Gould secondo cui Morton eseguì misurazioni errate di alcuni crani a causa di pregiudizi razziali, ci si aspetterebbe che tali errori non siano distribuiti casualmente per popolazioni. In particolare, ci si aspetterebbe che Morton abbia sovrastimato di preferenza i crani “bianchi”, e sottostimato per lo più crani "non bianchi". (...) Noi abbiamo trovato solo una differenza significativa: Morton sovrastimò più crani egiziani (3 su 13) di quanto ci si aspetterebbe dal caso. Ma i crani egiziani sovrastimati erano chiaramente considerati da Morton come crani “neri", così che tale sopravvalutazione è di fatto in contraddizione con la sua presunta parzialità. In tutti gli altri casi, gli errori di Morton erano distribuiti casualmente rispetto alla popolazione.”
(14). S. Jay Gould, The Mismeasure of Man. 1981, 1996; trad.it. 1998, p.80
(15). In M.A. Little e K.A.R. Kennedy (eds.), Histories of American Physical Anthropology in the Twentieth Century, 2010, p. 31. Parimenti hanno chiosato Lewis et al.: “Ironicamente è proprio l’analisi di Morton fatta da Gould ad essere probabilmente il migliore esempio di pregiudizio che condiziona i risultati.” Va detto comunque che la nota in cui Gould ammette l’errore compare anche nella seconda edizione de The Mismeasure of Man, cfr. p. 98n.
(16). Franz Boas, uno dei padri fondatori dell’antropologia liberal americana e campione della lotta al razzismo, sostenne che, in base a sue misurazioni, il mutamento di ambiente e di alimentazione aveva portato i figli degli immigrati stabilitisi negli Stati Uniti a sviluppare una forma cranica significativamente diversa dal quella dei loro genitori; il dato non è stato mai confermato da altre ricerche. Cfr. M.A. Little e K.A.R. Kennedy (eds.), op.cit. pp. 62-3.
(17). Proprio poco prima del caso Burt, fra gli anni ’60 e ’70, fu portato avanti uno dei più ambiziosi – e costosi - programmi destinati a dimostrare il carattere preponderante delle influenze ambientali - il cosiddetto Milwaukee Project. Un team guidato dal professor Rick Heber del University of Wisconsin–Madison offrì ad un gruppo di bambini di un quartiere particolarmente degradato di Milwaukee, un’assistenza completa sin dalla nascita. Essa andava dalla formazione delle madri ad un’alimentazione sana ed equilibrata, compresa ovviamente ogni forma di stimolazione cognitiva e di istruzione avanzata. I risultati presentati dopo alcuni anni sembrarono particolarmente eclatanti. All’età di sei anni i test di intelligenza mostravano un Q.I. di 120 rispetto al gruppo di controllo fermo sotto 90. I risultati furono ampiamente pubblicizzati come un successo decisivo delle tesi ambientaliste. Tuttavia successive misurazioni negli anni seguenti mostrarono un progressivo riallineamento tanto dei risultati dei test quanto di quelli del rendimento scolastico, che a 14 anni non presentavano più alcun sostanziale scostamento. Al punto che A. Jensen ipotizzò che il brillante successo dei primi test fosse dovuto semplicemente al fatto che i bambini erano stati allenati a sostenerli con successo. Peraltro, come nel caso di Burt, anche il team del Milwaukee Project non mise a disposizione i dati grezzi dei suoi test a revisori qualificati né chiarì i criteri specifici con cui li aveva concepiti. Commentano al proposito Snyderman M. e Rothman, S., The I. Q. Controversy. The Media and Public Policy. 1988, p. 99: “i ventiquattro punti differenza IQ all'età di otto-nove anni erano inferiori rispetto ai trenta punti a sei anni, e dati di altri studi indicano che i due gruppi avrebbero conseguito punteggi ancora più similari negli anni successivi. Inoltre, i dettagli procedurali e risultati completi del Progetto Milwaukee non sono mai stati esaminati in una rivista professionale qualificata. Ma questi risultati continuano ad essere ampiamente citato, sia nella stampa popolare che nei libri di testo universitari. Robert e Barbara Sommer hanno recentemente [1983] riferito che quasi la metà di tutti i testi di psicopatologia e di psicologia dello sviluppo pubblicati dal 1977, menziona lo studio di Milwaukee." Non solo: dopo qualche tempo Heber, con altri suoi collaboratori, finì in carcere per essersi appropriato di parte degli ingenti fondi federali che erano stati destinati al nobile progetto. La vicenda, tuttavia, è stata quasi dimenticata, e nessun Gould o nessun Barbujani s’è trovato che celebrasse le gesta anche di quest’altro professore, per il quale il termine di “farabutto” avrebbe potuto essere impiegato a ben maggior diritto, ma che, per sua buona sorte, era collocato politicamente dalla parte giusta.
(18). Kaufman, A.S., IQ Testing 101. 2009. p. 180. Parimenti in un articolo del 2005 ha scritto T.J. Bouchard: “Dal 1979 uno studio continuato di gemelli mono- e dizigotici allevati separatamente, ha sottoposto più di 100 coppie (...) ad una settimana di intensa osservazione fisiologica e psicologica. Come da precedenti e più ristretti studi di gemelli monozigotici allevati separatamente, è stato trovato associato alla variazione genetica circa il 70% della variazione del Q.I. (http://web.missouri.edu/~segerti/1000H/Bouchard.pdf, p. 223).
(19). Jensen, A.R., Miele, F., Intelligence, Race and Genetics. 2002, pp. 99-100.
(20). Caryl P.G. e Deary, I.J., I.Q. and censorship, 1996. http://libgen.in/scimag/get.php?doi=10.1038%2F381270b0.
(21). Hilliard, C., Straightening the Bell Curve, How Stereotypes about Black Masculinity Drive Research on Race and Intelligence. 2012, p. xi.
(22) Op. cit. p. 100.

Edited by Institor - 20/10/2015, 11:12
 
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