Coudenhove Kalergi. II. Un "Piano" autografo.

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view post Posted on 21/2/2015, 12:27
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Richard von Coudenhove Kalergi.
II. Un “Piano” autografo.





1zoN5nu

Da Paneuropa, 1923.




Lo scenario geopolitico di Kalergi.


Riassumiamo in due righe quanto visto sin qui: nei confronti di Kalergi tanto la pubblicistica dell’estrema destra, quanto anche alcuni autori di fede liberal, hanno usato un facile espediente - gli uni per dannarlo all’antenòra dei traditori della patria e gli altri per “rivisitarlo”. L’espediente consiste nel trasferire le sue perorazioni all’unità, alla pace ed al superamento di vecchi confini, dall’ambito strettamente europeo a quello dell’intera umanità, facendo di Kalergi un precursore più o meno consapevole dell’attuale vulgata universalista e dell’aspirazione ad una comunità mondiale integrata ed omogenea, al di là delle barriere politiche, etniche, culturali, etc. etc.

E’ da definire “espediente” una simile scelta perché la lettura dei testi di Kalergi, a qualunque livello di approfondimento, mostra tutt’altri concetti. Egli in realtà fu sempre profondamente convinto che l’assetto mondiale presente e del futuro prevedibile, avrebbe in ogni caso presupposto l’esistenza di distinti Weltkomplexen o Weltmachtgruppen: “L’europeismo di Coudenhove-Kalergi - scrive A. Prettenthaler-Ziegerhofer - era fondato su di una filosofia che divideva il mondo in cinque blocchi di forza continentali: il blocco americano, l'inglese, il russo, l'asiatico orientale e l'europeo. Quattro di questi campi di forza erano strutturati e organizzati, mentre quello europeo era disarticolato, diviso in Stati nazionali. Questa frantumazione dell’Europa avrebbe potuto portare ad ulteriori guerre e questa era la ragione per cui, secondo Coudenhove-Kalergi, gli Stati europei dovevano unificarsi per formare Pan-Europa.” (1)
Tali blocchi continentali non hanno solo differenti interessi materiali, ma sono anche e soprattutto espressione di diverse tradizioni culturali, e destinati quindi a restare divisi ed in competizione, se non in conflitto. Come scrivono E. Kovics and M. Boros-Kazai, “i paneuropeisti suggerivano di separare i problemi europei da i problemi del mondo. (...) Era chiaro che - se anche Coudenhove Kalergi considerava un'altra guerra mondiale evitabile da una riorganizzazione regionale della Società delle Nazioni - una guerra tra continenti politici ancora rimaneva una possibilità reale per lui.” (2)
Lungi dunque dall’essere un primo passo verso una “fusione” planetaria – ai cui tentativi Kalergi guardò anzi con sospetto (“I nemici dell’europeismo si trincereranno dietro l’idea d’una Lega mondiale [Weltbund] per impedire la nascita di Pan-Europa.”, 3) - il progetto paneuropeo aveva una valenza diametralmente opposta: era cioè funzionale a ridare all’Europa una scala dimensionale in grado di garantirne l’indipendenza politica ed economica, e quindi anche di difenderne la specificità culturale.

Le cartine pubblicate mostrano due modi, leggermente differenti, in cui Kalergi visualizzò la sua idea della futura geopolitica del pianeta e la definizione dei blocchi continentali. Ciò che però andrebbe aggiunto è che siffatte rappresentazioni finiscono per dissimulare confini d’altra natura che per Kalergi erano altrettanto reali e forse ancor più significativi. Al di sopra delle partizioni propriamente politiche operava infatti per lui una fondamentale divisione di civilizzazioni a base etnica e razziale, ed innanzitutto la specifica soggettività di quella che egli, come comunemente si faceva all’epoca, chiamava “weisse Rasse”, cioè l’Occidente costituito dall’Europa, la Gran Bretagna con i paesi del suo impero di popolamento anglosassone, gli Stati Uniti ed anche la stessa Russia.
Ciò considerato le relazioni fra i diversi Weltkomplexe non erano da porsi tutte sul medesimo piano. In particolare due delle potenze globali con cui l’Europa si sarebbe trovata a competere - e cioè l’Impero britannico e gli Stati Uniti – pur avendo interessi politici e strategici in parte differenti o anche divergenti da quelli dell’Europa, rientravano appieno in una sostanziale comunanza di civiltà. Con esse quindi, e soprattutto con la Gran Bretagna, l’attitudine della futura Paneuropa avrebbe dovuto essere di collaborazione o comunque di competizione mai conflittuale: “Nel mio libro [Paneuropa, 1923] sostenevo chiaramente non già che la Gran Bretagna dovesse essere esclusa, ma semplicemente (...) che essa mai sarebbe stata disposta a permutare la sua posizione al vertice di un impero che si estendeva su di un quinto della Terra e dell'umanità, con una membership nella Confederazione europea. Invece di un tentativo senza speranza di portare l’Inghilterra in Paneuropa, bisognava perseguire una forte collaborazione nel quadro della Società delle Nazioni tra Paneuropa e Commonwealth. La nostra opinione sulla questione britannica si poteva riassumere nella seguente formula: "Se possibile con l'Inghilterra; se necessario senza l'Inghilterra; in nessun caso contro l'Inghilterra. " (4)

Un atteggiamento sostanzialmente simile valeva per il rapporto con gli Stati Uniti, visti non solo come l’alleato più importante dell’Europa (“ Sull’ amicizia tra l'Europa e l'America appoggia non solo il futuro della nostra civiltà, ma anche il mantenimento della pace. Solo se l'Europa e l'America restano solidamente unite, rappresenteranno nel prossimo futuro la più forte potenza del mondo, la cittadella inespugnabile della libertà umana.” 5), ma in Praktischer idealismus rappresentati addirittura come l’avanguardia stessa della civiltà europea: “L’Europa deve al progresso tecnologico la primazia su tutte le altre culture. (...) L’America è la più alta espressione dell’Europa [höchste Steigerung Europas].” (p. 87)
Va comunque sottolineato che Kalergi, pur in questa coscienza d’un comune destino culturale e nell’ammirazione per il modello democratico anglosassone, non mancò di mettere in guardia da un’attitudine troppo sottomessa alla guida politica statunitense, in particolare nel secondo dopoguerra, allorché la posizione generale dell’Europa continentale s’era disastrosamente indebolita. Elemento questo, che va sottolineato anche in rapporto all’accusa sistematicamente mossa da Honsik d’esser stato egli null’altro che un esecutore degli ordini “de la potencia ocupacionista de los Estados Unidos”. Scrive per esempio in Mutterland Europa del 1953: “Non possiamo dimenticare il piano del presidente Roosevelt di realizzare un accordo fra Russia e America a spese dell’Europa. Oggi c'è un forte tentativo di bloccare l'unificazione europea, creando una Federazione atlantica formata dagli Stati Uniti d'America e i vari Stati nazionali europei presi singolarmente. L'attuazione di questo programma trasformerebbe gli Stati europei in vassalli dello schiacciante potere del sole americano. La storia ci insegna che i sudditi prima o poi cercano di liberarsi dall’oppressione e pertanto ben difficilmente le nazioni europee potrebbero rimanere nel lungo periodo satelliti e contemporaneamente amiche dell’America. Questa amicizia può essere garantita solo da un’alleanza ed un cordiale rapporto di fiducia tra due partner posti sul medesimo livello di parità: gli Stati Uniti d'America e gli Stati Uniti d'Europa.” (pp. 23-4)

Al ben più problematico rapporto fra Europa e Unione sovietica s’è già fatto qualche cenno. Durante tutta la sua esistenza Kalergi considerò l’espansione russa in Europa come la maggiore minaccia strategica per gli europei. “Per ragioni di principio - si legge già nell’opera del 1925 - la Russia si oppone all’attuale pacifismo, ostenta atteggiamenti militaristi ed ha organizzato un forte esercito in grado di cambiare a fondo la mappa del mondo, quantomeno in Europa e in Asia. Una volta che questo esercito sarà abbastanza forte, si metterà senza dubbio in marcia contro l'Occidente.” (pp. 171-2).
Alcuni interpreti di Kalergi sostengono che questo suo atteggiamento di diffidenza e di timore verso la Russia poggiasse sulla convinzione di una sostanziale estraneità culturale e civile di quell’area rispetto alla civiltà europea. Scrive per es. K. Orluc: “Secondo Coudenhove-Kalergi il conflitto esistenziale con l'Unione Sovietica derivava dal fatto che quest'ultima con la sua rivoluzione si era volontariamente isolata dall'Europa. Essa aveva dato vita così ad una nuova cultura in opposizione a quella europea. Una cultura che, a suo avviso, era "asiatica", o, data la sua fusione di "teorie europee e pratiche asiatiche", era "eurasiatica", e quindi "anti-democratica" . In Russia, i principi che definiscono l'Occidente sono stati annullati da una nuova etica basata sulla combinazione di terrore e violenza. Ciò costituiva uno scontro tra le due "razze", un termine che Coudenhove-Kalergi utilizzava in un senso culturale piuttosto che biologico. Un fattore decisivo per Coudenhove-Kalergi era il fatto che gli europei e russi fossero diventati diventati due distinte Kulturnationen, anche se qualche affinità nelle loro radici era una volta esistita. Con questa differenza culturale incolmabile [unbridgeable cultural difference], Coudenhove-Kalergi spiegava l’inarrestabile spinta espansionistica dell'Unione Sovietica.” (6)

In realtà però – per quanto sia possibile una puntualizzazione di questioni e concetti così sfuggenti – altri passi possono far pensare ad un atteggiamento sostanzialmente diverso. Kalergi infatti, accanto all’allarme per l’attitudine aggressiva della dirigenza russa, mette spesso in rilievo anche la profonda e spontanea risonanza che la rivoluzione comunista ha nell’animo di milioni di europei in ogni paese del continente: “L’Europa non è in condizione di cambiare l’atteggiamento politico dei dirigenti russi, il cui sistema è espansivo. (...) Ma i pacifisti europei non possono trascurare il fatto che la Russia si sta riarmando in nome dell’eguaglianza sociale e che oggi milioni di europei considererebbero un’invasione russa come una guerra di liberazione. Più questa convinzione si diffonde fra le masse europee, più questa minaccia si fa incombente. (...) Il rivoluzionarismo sociale occidentale non rinuncerà all’Internazionale di Mosca se non sperimenta in modo concreto che la condizione ed il futuro del proletariato nei paesi democratici sono migliori di quelli dei lavoratori sovietici. Se il comunismo sarà in grado di dimostrare che le cose stanno in modo diverso, allora non ci saranno scelte di politica estera che potranno tenere lontana la rivoluzione dall’Europa ed evitare la sua annessione [Anschluss] da parte della Russia sovietica.” (p. 175) E ancora “Rinunciando alla democrazia la Russia si è volontariamente isolata rispetto al sistema degli stati europei. Anche nei confronti della Russia Paneuropa non ha alcun atteggiamento ostile. Il suo obbiettivo è il mantenimento della pace russo-europea, il disarmo concordato, la cooperazione economica e il reciproco rispetto sulle questioni interne.” (7)
Ora, è ben difficile pensare che un modello sociale e politico potesse essere così influente e attrattivo su milioni di cittadini europei, se ad essi si fosse rivolto di là da un “unbridgeable cultural difference”. In realtà per Kalergi la rivoluzione bolscevica era un fenomeno tutt’altro che incomprensibile per l’animo europeo. Essa aveva avuto certo uno sviluppo per molti aspetti tipicamente russo o addirittura “asiatico”, ma le teorie politiche a cui s’era richiamata avevano comunque le loro radici ideali nel cuore stesso dell’Europa, nella sua più rilevante tradizione filosofica. La stessa efficienza tecnica di cui, pur fra mille sacrifici ed eccessi, il nuovo Stato sovietico dava prova nel costruire le proprie basi istituzionali, sociali ed economiche, non poteva che essere espressione di una modernità di tipo europeo profondamente assimilata. Proprio per questo nel pensiero di Kalergi, l’idea di un “Anschluss” anche di tipo ideologico e culturale, per quanto da scongiurare, era tutt’altro che inconcepibile; così come, all’opposto, nemmeno era da escludere in via di principio una partecipazione alla federazione europea di una Russia tornata alla democrazia: “Paneuropa non può aspettare la caduta dell’Impero britannico e la democratizzazione di quello russo. Ma essa è viva ed organica come dev’essere ogni soggetto politico, e quindi una futura associazione della Russia o dell'Inghilterra non è impossibile.” (8)

Che questa interpretazione del pensiero di Kalergi abbia fondamento, lo può indirettamente dimostrare anche la sua concezione dei futuri rapporti fra popoli dell’Estremo Oriente e la “weisse Rasse”. Egli infatti – che pure era nato dal matrimonio di un europeo e di una orientale – considerò sempre l’Oriente come per definizione l’Altro-da-sé rispetto all’Europa. Praktischer Idealismus è pieno, e qualche citazione la si è già riportata, di comparazioni oppositive fra le due grandi sfere culturali e spirituali, concepite come l’Alfa e l’Omega dello spirito umano. Certo, che l’Asia possa essere contrapposta in modo così frontale all’Europa è anche un riconoscimento della sua grandezza spirituale, della sua capacità di costruire su tutt’altre basi un’autonoma civilizzazione, a suo modo non meno alta e duratura. “Kultur-Asien”, “Seele Asiens“, "Weise Asiens“, "Asiens Weltmission“, “Asiens Kulturzentren”, etc. sono espressioni che tornano di continuo nel saggio del 1925, in genere riferite all’area sino-giapponese, pur non mancando il riconoscimento di un’autonoma soggettività culturale dell’India (“der indischen Kulturnation”, p. 169).
Fatto sta però che proprio per questo Kalergi non prevede né tantomeno auspica alcuna possibile “fusione” fra le due civilizzazioni, e se vi accenna, è soltanto per sottolineare l’effetto sostanzialmente negativo che essa avrebbe per entrambe. In un simile incontro l’Europa rischierebbe di perdere l’essenza più caratterizzante del proprio Geist: “Il misticismo dell’Asia minaccia la lucidità spirituale dell’Europa – l’attitudine passiva dell’Asia ne minaccia l’energia virile.” “L’Europa del Nord, che vive della sua eroica creatività, deve rigettare da sé lo snervante spirito buddista. (...) Il buddismo è un meraviglioso coronamento per le culture mature, ma è un dono avvelenato per le culture creative. La sua Weltanschauung è adatta per la maturità, per l’autunno - come la religione di Nietzsche per la gioventù e la primavera – ed il credo di Goethe per la fioritura e l’estate. – Il Buddhismo soffocherebbe la tecnologia - e con essa lo spirito dell'Europa.” (p. 122-3)

Anche riguardo alle nazioni dell’Asia - sia pure in termini meno netti – Kalergi auspica che l’inevitabile modernizzazione – allora già pienamente a regime, soprattutto in Giappone – non arrivi a cancellare del tutto il loro carattere peculiare, per non deluderne la fondamentale “Weltmission”: “Il cosiddetto risveglio dell’Oriente significa il trionfo di europei di pelle gialla sui veri orientali. Non porta alla vittoria ma alla distruzione della cultura orientale. Dove in Oriente il sangue di Asia vince, vince con lo spirito dell'Europa: il virile, duro, dinamico, ambizioso, energico, spirito razionalista. Ma per partecipare al progresso l'Asia deve surrogare la propria anima e la propria cultura armoniose con quelle vitalistiche dell’Europa. L'emancipazione degli asiatici passa per il loro ingresso nell’esercito economico euroamericano e la loro mobilitazione nella battaglia per la tecnologia. Dopo che tale battaglia sarà conclusa vittoriosamente, l’Asia potrà tornare a sé stessa (...) ed educare di nuovo il mondo ad una più pura armonia. Ma attendendo ciò l’Asia deve continuare a portare l’uniforme europea.” (pp. 119-120)

Resta peraltro il fatto che quando in questo stesso testo si abbandona il piano più astratto dei “Geister” e delle “Weltmissionen” – in cui Kalergi indulge a tale visione alquanto opinabile dell’Oriente come eminentemente “femminile” e “passivo” - i parametri cambiano decisamente. La modernizzazione dell’Oriente - che già nella guerra russo-giapponese aveva consentito ad una nazione orientale di umiliare una potenza europea – viene ad assumere un carattere non privo di aspetti minacciosi. Un esempio è offerto dal problematico posizionamento geopolitico dell’Australia anglosassone nel quadrante estremo-orientale (e che ancor oggi – sia detto per inciso – si presenta all’incirca nei medesimi termini esposti da Kalergi). Egli giudica da europeo e quindi non prende posizione, ma ritiene che l’esito più probabile sia quello di un conflitto di carattere militare: “La questione australiana (che è un caso particolare della questione migratoria del Pacifico [pazifischen Einwanderungsfrage]) ruota attorno al blocco delle popolazioni mongoliche rispetto alle zone di insediamento anglosassone. La loro rapida crescita demografica è sproporzionata rispetto alla loro disponibilità di territorio e minaccia un giorno di portare ad una esplosione nel Pacifico, se la valvola non salta. D'altra parte, i bianchi d’Australia sanno assai bene che l’apertura all’immigrazione mongolica li ridurrebbe in breve ad una minoranza. E’ difficile immaginare quale soluzione potrà essere trovata se un giorno la Cina dovesse procedere ad un riarmo, così come ha fatto il Giappone. Dare una soluzione pacifica a questi problemi mondiali si presenta come una sfida molto difficile per i pacifisti inglesi, asiatici e australiani. I pacifisti europei, d’altronde, devono riconoscere chiaramente che una soluzione militare è più probabile di un accordo pacifico e che essi non hanno né il potere né l'influenza per scongiurare queste guerre incombenti.” (pp. 168-9, 10).

Certo anche da queste ultime parole, si potrebbe derivare l’impressione che comunque per un pacifista come Kalergi quello delle possibili crisi internazionali sia l’elenco – realistico, ma non meno triste - delle follie che l’istinto alla lotta ispira all’umanità. Un qualcosa che se il Pessimismus der Erkenntnis è costretto a mettere sempre in conto, - l’Optimismus des Wollens anelerebbe però a superare, quando che sia. Che dunque egli, pur prevedendo questi scenari di lotta e di scontro per il futuro incombente, sempre allunghi lo sguardo oltre la linea dell’orizzonte, speranzoso e confidente nel “ritrovamento” di quella lontana “Zukunftrasse” completamente pacificata e non più conflittuale; quell’umanità depoliticizzata in cui la categoria schmittiana di “Amico-Nemico”, costitutiva della categoria stessa del politico, sia finalmente posta in oblio.

Bene, si potrebbe senz’altro pensare tutto ciò – come alcuni fanno - ma ci si sbaglierebbe. In realtà Kalergi di fronte a questo scenario di competizione, spesso sull’orlo di degenerare in conflitto, rifiuta sistematicamente ogni pacifismo inteso come estinzione dell’istinto alla lotta. Egli si dice pacifista solo in quanto la tecnologia moderna rende la guerra tradizionale troppo distruttiva per i vincitori come per i vinti e quindi si risolve in una perdita secca per tutti, ma non ha alcun interesse per quel sogno di un mondo devirilizzato con cui tante volte si trastulla l’universalismo da scrivania. Kalergi conosceva realmente lo scenario internazionale, anzi l’animo umano, e quindi sapeva che la distinzione e la competizione fra le diverse civiltà non è necessariamente distruttiva, ed anzi ha un fondamentale ruolo positivo nel trarre dall’umanità i suoi frutti più alti. Non si vogliono qui evocare analoghi concetti di autori, da Hegel a Carl Schmitt, a cui certo Kalergi non può essere accostato, ma le sue parole, proprio per la loro più semplice linearità, non lasciano spazio a dubbi sulla sua collocazione filosofica in merito: “La condanna della guerra non deve mai degenerare in una condanna della lotta [Kampf]. Tale sviamento del pacifismo farebbe soltanto il gioco dei forti contro-argomenti dei militaristi e comprometterebbe il pacifismo dal punto di vista etico e biologico. Infatti la lotta e lo spirito combattivo sono ciò che crea ed alimenta la civiltà umana. L’esaurirsi della lotta e dell’istinto alla competizione equivarrebbe all’esaurirsi ed all’estinguersi della civiltà e dell’uomo. La lotta è un bene [Der Kampf ist gut]. E’ la guerra ad essere malvagia, in quanto è una forma primitiva, rozza e oramai superata di lotta fra le nazioni – così come il duello lo è nei rapporti sociali. L'obiettivo del pacifismo non è l'abolizione della lotta, ma la raffinazione, la sublimazione e la modernizzazione dei suoi metodi. (...) Tempo verrà in cui le rivalità nazionali invece che con baionette e proiettili di piombo sarà combattuta con armi spirituali. Piuttosto che nella corsa agli armamenti, le nazioni si sfideranno l’un l’altra nel progresso scientifico, artistico e tecnico, nel campo della giustizia e del benessere sociale, della salute e dell'istruzione pubblica e nell’espressione di grandi individualità.” (pp. 182-3.)

Lo stesso capitolo sul “Pazifismus” che conclude Praktischer Idealismus è tanto una condanna della guerra, quanto una critica serrata e senza riguardi ad ogni pacifismo narcisiticamente innamorato delle proprie parole, ma irresponsabile ed impotente sul piano della realtà effettuale: “il pacifismo è impolitico: tra i suoi leaders ci sono troppi delicati sognatori e troppi pochi politici. E’ per questo che il pacifismo si fonda spesso sulle illusioni e non tiene conto dei dati di fatto, non tiene conto della debolezza, dell’irragionevolezza e della malvagità umana. Esso dunque non può che tirare conclusioni false da false premesse.” (pp. 126-7)

A partire da queste idee diviene fondamentale per Kalergi che la cultura europea, come “cultura del tempo moderno” (p. 85), non perda assolutamente il suo faustische Geist, il suo più tipico e prezioso tesoro spirituale. Così in tutto il saggio del 1925 tornano di continuo di scenari e visioni in cui il ruolo dell’Europa – a condizione che non distrugga se stessa con nuove guerre interne - non solo è sempre protagonistico, ma è ancora improntato all’esaltazione delle sue tradizionali doti di energia, di reattività, di sfida e anche di faustiana dismisura, ed in genere proprio in opposizione ad un continente asiatico troppo contemplativo e troppo saggio per succederle nel cimento incessante del primato.
Scrive Kalergi: “l'Europa è a suo modo grande come l'Asia: ma la sua grandezza non è nella bontà né nella saggezza - ma nell'energia e nella capacità inventiva. L’Europeo è l'eroe della terra; su ogni fronte di battaglia del genere umano è all'avanguardia dei popoli: nella caccia, nella guerra e nella tecnologia esso ha sopravanzato qualunque altro popolo civile della storia, davanti o accanto a lui. Ha quasi sterminato tutti gli animali nocivi nelle sue terre; ha vinto e soggiogato quasi tutti i popoli di colore scuro, e infine, per mezzo dell’inventività e del lavoro, della scienza e della tecnologia, esso ha acquisito un potere sulla natura, come mai ed in nessun luogo si immaginava possibile. La missione planetaria dell’Asia è la redenzione del genere umano attraverso l'etica – La missione dell’Europa è la liberazione del genere umano attraverso la tecnologia. Il simbolo dell'Europa non è né il saggio, né il santo, né il martire - ma l'eroe, il combattente, il vincitore e il liberatore.” (p. 82).
S’aggiungesse solo in esergo una citazione dal “White man’s Burden” di Kipling di vent’anni prima, e il quadro verrebbe completo.


Kalergi e l’”Eurafrica”.


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Reutlinger General-Anzeiger, 29 settembre 1929.




Resta a questo punto, dopo aver delineato per sommi capi il modo in cui Kalergi concepiva le relazioni internazionali, di tornare al tema cruciale del rapporto dell’Europa con il grande continente africano. Cruciale perché, come ognuno sa, è sul rapporto con la regione africana e con le propaggini occidentali dell’Asia - per parte significativa accomunate da una medesima confessione religiosa islamica - che oggi ancor più di allora si gioca buona parte del futuro dell’Europa. Ed è certo per questo che il termine coniato pur tanti anni fa da Kalergi - “euro-asiatische-negroide Zukunftrasse” – assume oggi così tanta pregnanza concettuale ed emotiva, da farlo riecheggiare in innumerevoli luoghi della rete – per gli uni cupa profezia di scoscendimento nella barbarie, per altri scelta profetica di rinnovamento spirituale.
Ci ritorniamo perché, se in effetti Kalergi non ebbe un particolare interesse per la questione, non è peraltro affatto vero, come afferma Botz-Bornstein (e ci si chiede se per una disattenzione in buona fede o meno), che egli non abbia mai parlato dell’Africa e delle sue popolazioni in generale e che quindi per conoscerne il giudizio in merito si debba ricorrere agli “I wonder if not” ed altre ipotesi fantasiose e mistificazioni.

In rete è presente fra l’altro un numero del settembre 1929 del quotidiano Reutlinger General-Anzeiger, in cui compare un articolo di Kalergi – “Afrika für Gesammt-Europa!” (11) - dedicato appunto all’analisi del rapporto fra i due continenti. Le parole d’esordio sembrerebbero tali da dover far rimpiangere a Botz-Bornstein di non essersi meglio documentato: “Il Mediterraneo – scrive Kalergi - unisce Europa ed Africa più di quanto non le divida. Così l’Africa è diventata il nostro vicino più prossimo ed il suo destino una parte del nostro medesimo destino.” “L’Africa rappresenta in molti sensi il naturale e ideale completamento dell’Europa [natürliche und ideale Ergänzung Europas].” “Quanto più l’Europa sarà spiazzata politicamente ed economicamente dall’America e dall’Asia, tanto più verrà a dipendere dall’Africa.” “L’Africa è la quinta base produttiva dell’Europa ed il suo quinto mercato e quindi una grossa parte del futuro economico dell’Europa è legata all’Africa.”

Peccato tuttavia che queste considerazioni non possano essere lasciate così come sono, ché sembrerebbero dir già tutto quanto serve, e che si debba andare ancora per minuzie. Ciò che infatti si desume dalla lettura dell’articolo nella sua interezza è che ad essere una risorsa irrinunciabile per l’Europa è esclusivamente il territorio fisico dell’Africa e le ricchezze naturali che nasconde, mentre l’umanità africana, per contro, è considerata esclusivamente come una voce negativa, se non come un peso. Così il fatto la “schwarze Rasse” non venga presentata da Kalergi come un reale “Altro-da-sé” rispetto all’umanità europea – così com’era stato per quella asiatica – lungi dall’esser per la suggestione d’una più immediata e naturale affinità, consegue semplicemente alla sostanziale insignificanza politica e civile che le viene attribuita. Fra l’altro, mentre nella cartina pubblicata nel 1923, l’Africa (di colonizzazione non anglosassone) appare aggregata all’Europa, in quella di sei anni dopo essa è lasciata in bianco, così come buona parte dei paesi arabi e islamici – distinguendola quindi questa volta dall’Europa ma negandole nuovamente una soggettività autonoma (che ora per esempio vien invece riconosciuta all’America latina, in precedenza inglobata nella Weltmachtgruppe statunitense).

In Kalergi – sia chiaro - non si ritrovano apprezzamenti arcigni o sprezzanti; anzi egli ha parole generose ed aperte sul dovere di redimere gli africani dalla loro arretratezza, arrivando perfino a citare come esempio l’apostolato umanitario di Albert Schweitzer. Ma alla fin fine il risultato ultimo di siffatta magnanimità è di presentare l’appropriazione coloniale delle risorse dell’Africa da parte dell’Europa non già come un atto aggressivo e conflittuale d’un Weltkomplex nei confronti di un altro, ma come atto filantropico di cui esser fieri gli uni e riconoscenti gli altri.
“La razza nera – scrive Kalergi in questo articolo - non è in grado di sfruttare e civilizzare questa regione della terra, e quindi è la razza bianca ad essere chiamata a farlo. Ma gli europei devono essere in Africa i liberatori della razza nera, non gli oppressori. Devono emancipare gli africani dalla loro miseria, dalla loro barbarie, dalla loro malattia del sonno, dalle loro altre piaghe, dalla loro fame, dalla loro anarchia. Essi devono liberare la donna africana, che oggi è una bestia da soma, dalla sua durissima schiavitù; per mezzo del bue e dell’aratro a vapore, del cristianesimo e dell’educazione. La schiavitù in Africa non è stata introdotta dagli Europei ma nemmeno da essi abolita. Essi se ne sono serviti in passato nelle forme più spietate. Se ne servono ancora oggi in modi più attenuati. Quindi l’europeo ha per lo più tradito la sua missione in Africa. Non è stato un fratello maggiore, un tutore, un maestro ed una guida per l’Africa – ma un despota ed un oppressore. Invece di contestare il principio della colonizzazione in sé, l’opinione pubblica del mondo civilizzato dovrebbe prender posizione contro molte delle sue forme. Essa dovrebbe impegnarsi nella cura, nell’istruzione e nell’elevazione della razza nera; comprendere e patrocinare l’impegno civile di Albert Schweitzer e curarla dalle sue malattie. Questo è il rovescio della medaglia della conquista politica, ciò che un giorno potrebbe giustificarla moralmente. Questo è il modo in cui l’Europa può contraccambiare tutto quello che l’Africa gli dona.”

Nel caso dei rapporti fra Europa ed Asia – lo s’è visto - l’auspicio di uno sviluppo autonomo ed non reciprocamente contaminato delle rispettive vocazioni culturali e spirituali, non escludeva un qualche accenno prudente ad una collaborazione per il progredire dell’umanità nel suo complesso. A proposito dei popoli africani, invece, l’idea d’una loro peculiare “Weltmission” non è nemmeno concepibile. Per Kalergi quella degli africani è semplicemente “Elend” e “Barbarei” – miseria e barbarie - e quindi – sul piano civile e culturale - il rapporto fra Europa e Africa non può che essere puramente unidirezionale, con l’una parte che ha tutto da dare e l’altra tutto da ricevere. La “Erziehung der schwarze Rasse” viene auspicata con enfasi, ma più che altro come la “Kehrseite” e la “Gegengabe” - cioè in buona sostanza il rovescio della medaglia, la contropartita – per l’appropriazione e lo sfruttamento delle risorse naturali.

Anzi, nemmeno: come recita il titolo del paragrafo immediatamente successivo “Per mettere a frutto l’Africa, l’Europa non dovrà solo governarla, ma anche popolarla.” Infatti paradosso vuole che l’autentico ed autografo “Piano Kalergi” che viene esposto in questo scritto, lungi dall’essere quello farneticato da Honsik del passaggio di milioni di africani in Europa, è piuttosto quello di milioni di europei in Africa. A suo avviso soprattutto i paesi dell’Europa in forte crescita demografica (ed in primo luogo la “Grande Proletaria”) – avrebbero dovuto risolvere i propri problemi non più offrendo forze e sangue a continenti lontani e stranieri, come le Americhe o l’Australia, ma emigrando in territori come quelli africani, che, privi di tradizione storica e di identità politica, avrebbero poi potuto considerare di loro piena proprietà, sdebitandosi moralmente coi barbari di costì grazie alla propria sola presenza: “Qui c’è spazio per milioni di europei. Lo sviluppo del Sudan ad opera degli inglesi, dell’Algeria ad opera dei francesi e della Tripolitania ad opera degli italiani, dimostra quanto fertile terreno può essere strappato al deserto dall’audacia, dall’organizzazione, dalla fantasia e dalla operosità degli europei. In questa allungata fascia abitata c’è ancora molto spazio per vecchie e nuove popolazioni. (...) I popoli dell’Europa meridionale, che nell’ultimo secolo hanno popolato e colonizzato il Sudamerica, sono chiamati in prima linea a colonizzare l’Africa del futuro. Fra questi innanzitutto gli Italiani, la cui sovrappopolazione li destina a tale grande missione europea. Questa colonizzazione dei territori disabitati dell’Africa è d’altronde nell’interesse dell’intera Europa e dell’intera razza bianca. Lo sviluppo e nella colonizzazione dell’Africa significano infatti la crescita, l’espansione e la sicurezza dell’Europa. (...) Il sole europeo, che ha già svegliato l’America e l’Asia, attraverso il suo spirito e la sua energia illuminerà anche questa oscurissima parte del mondo e guiderà la comunità mondiale.”

Come ben si vede un mondo mentale alquanto remoto da quello dell’Albert Schweitzer a cui Kalergi stesso accenna, nutrito di tutt’altri concetti in rapporto ai modi ed ai fini della colonizzazione europea in Africa. La prospettiva di Schweitzer era di tipo cristiano, cioè salvifico, o “profetico” come direbbe il cardinal Martini. Il mondo umano - la sua storia, la stessa sua vicenda di conquiste civili, culturali o artistiche – per quanto possa esser apprezzato e valorizzato come palestra di raffinamento etico, non assume significato alla fin fine che come prodromo e prologo all’eterna salvezza nell’”Altrove”. Darsi troppo affanno per organizzare il nostro soggiorno qui in terra – cioè in altre parole assumere l’abito sostanzialmente pagano dell’”animal politicum” – è cosa ingannevole e vana. Tutto – in Schweitzer come in ogni anima cristiana che cerchi di essere rigorosamente coerente - in Pascal, in Manzoni, in Kierkegaard, in Tolstoj o in Carlo Maria Martini - va commisurato al singolo individuo in carne ed ossa (che poi sia l’’Io’ o l’’Altro’ poco rileva), al suo attuale soffrire terreno ed alla sua aspirazione ad un eterno godimento celeste. Nella visione salvifica cristiana esistono solo i singoli individui ed il loro principio di piacere e di dolore, come aveva a suo tempo compreso Lorenzo Valla coll’assimilarla, in modo solo apparentemente paradossale, all’epicureismo. La vicenda storica dei grandi soggetti collettivi, che non ha senso al di fuori della dimensione puramente terrena, è dunque soltanto polvere senza gloria.
In quest’ottica l’umanità africana, ritenuta tradizionalmente l’umanità “senza storia”, cioè senza dimensione politica, finisce per assumere quasi la valenza di un modello da imitare. Per questo a suo tempo Schweitzer, anima inquieta e tormentata in gioventù, ritenne di ritrovare se stesso solo nel cuore della società africana più arcaica e isolata. (12) Per questo Carlo Maria Martini ha potuto vedere nella progressiva africanizzazione dell’Europa “una grande occasione etica e civile per un rinnovamento spirituale”: è l’Africa che insegna all’uomo europeo a non assumere più, facendo dell’associarsi politico il fulcro dei suoi interessi, un’attitudine reattiva e prometeica nei confronti della realtà, ma a vivere la propria breve parentesi terrena nell’accettazione del proprio destino esistenziale per quello che è, cioè un qualcosa che ha un valore assai prossimo al nulla: “Che lo si voglia o no – scriveva Schweitzer nel 1915 - tutti noi qui viviamo sotto l'influenza dell'esperienza quotidiana che la natura è tutto e l'uomo è nulla. Questo fa sì che nella nostra visione generale della vita - anche in coloro che hanno meno cultura – ci sia la coscienza della frenesia e della vanità della vita europea. Sembra quasi impossibile che in qualche altra porzione della superficie terrestre la natura sia nulla e l’uomo tutto.” (13)

Kalergi, che pure nasceva da una devota famiglia cattolica austriaca, vive in un universo umano e valoriale remotissimo da siffatto “profetismo”: per lui l’esistenza terrena ha un senso ed un valore suoi propri e non è solo la posta senza valore che pascalianamente si baratta per ripiegarsi in eterno sulla propria voluptas. L’Europa di Kalergi era un soggetto politico e culturale ancora vitale, combattivo, conscio di sé, dei propri valori, della propria Weltmission, e non già un’umanità in disarmo, ingobbita, abêtie che cerca di ridare al proprio cristianesimo quello spirito con cui a suo tempo aveva plaudito gaudioso allo sfacelo della civiltà classica.
In questo senso la prosa tutta scintillar di fucìna e battere di maglio che Kalergi sfoggia in Praktischer Idealismus, rivela piuttosto un’inconfondibile ascendenza pagano-nietzscheana: “La tecnica si fonda su di un atteggiamento eroico ed attivistico di fronte alla natura; non vuole piegarsi di fronte alla volontà della natura, ma dominarla. La volontà di potenza [Wille zur Macht] è la pulsione motrice del progresso tecnologico. Nelle forze naturali il tecnico vede dei tiranni da abbattere degli avversari da sopraffare, delle bestie da addomesticare. La tecnologia è la prole dello spirito europeo.” (p. 96) “L'uomo contemplativo vive in pace con il suo ambiente – quello attivo in un continuo stato di guerra [Kriegszustande]. Per preservarsi, imporsi e fiorire, esso deve di continuo respingere, annientare ed asservire le forze aliene ed ostili. La lotta per la vita è una lotta per la libertà e la potenza. Vincere significa: imporre la propria volontà. Pertanto solo il vincitore è libero, solo il vincitore è potente. Tra libertà e potenza nessuna separazione può esservi: la piena affermazione dei propri interessi sacrifica gli interessi altrui. La potenza è l’unica garanzia d’una piena libertà. Così la lotta dell'umanità per la libertà coincide con la sua lotta per il potere. (...) Da animale meschino e indifeso, l'uomo è asceso alla signorìa della terra.” (p. 97)

L’opposizione filosofica e valoriale al cristianesimo sulla falsariga dell’insegnamento di Nietzsche, diventa così esplicita: “Il culto proprio dell’epoca tecnologica è un culto della forza. (...) Il suo carattere europeo-virile [männlich-europäischer Charakter] è quello proprio dell’attitudine dinamica della nostra epoca. L’etica europeo-virile di Nietzsche esprime la protesta del nostro tempo contro la morale asiatico-femminile del cristianesimo [weiblich-asiatische Moral des Christentums].” (p. 118) “Chiunque concepisca la parola cultura come ricerca di armonia con la natura, non può che definire barbarica la nostra epoca. Chi invece la vede come una sfida alla natura è portato ad onorare la forma europeo-virile della nostra cultura. Mentre in virtù delle sue radici cristiano-orientali l’etica europea fatica a riconoscere il valore morale del progresso tecnico - nella prospettiva di Nietzsche per la prima volta appare tutta la nobiltà e la bontà della lotta eroico-ascetica dell’epoca tecnologica per una redenzione attraverso lo spirito e l’azione. Le virtù dell'età tecnologica sono eminentemente l'energia, la resistenza, il coraggio, l'abnegazione, l'autocontrollo e la cooperazione.” (p. 120)
Anche ciò che dell’etica cristiana viene ancora salvato – il pacifismo e l’empito alla giustizia sociale – lo è soltanto in considerazione della sua valenza politica e non certo di quella salvifica per la quale Kalergi non spende una parola: “Dalla morale cristiana, l’etica del lavoro riprenderà lo spirito del pacifismo e della socialità: perché solo nella pace può darsi lo sviluppo tecnico – essendo la guerra solo distruttiva, e perché solo lo spirito sociale del lavoro comune di tutti i creatori potrà portare alla vittoria della tecnica sulla natura.” (p. 121)

Sarebbe in verità anche il caso di notare in via incidentale che per quanto Kalergi mostri di altamente apprezzare il ruolo storico del pensiero di Nietzsche, anzi il suo carattere epocale (14) e ne ponga il nome accanto a quello di altri precursori ed eroi del patriottismo europeo del passato – da Comenio a Kant, Napoleone e Mazzini - (15), un’oggettiva e profonda differenza sussiste fra le due impostazioni.
Nell’opera di Nietzsche le considerazioni propriamente geopolitiche sono relativamente limitate e tarde. Protagonista degli scritti della parte centrale della sua produzione non sono mai, come ordinariamente in Kalergi, i soggetti collettivi concreti che operano nell’attualità storica, ma è in generale un’umanità totalmente astratta e immaginaria, di matrice retorica e letteraria, in cui degli “Übermenschen” storicamente e politicamente non meglio precisabili, sfogano la propria voluttà autoassertoria egotica su “deboli e malriusciti” di altrettanto problematica identificazione. Un riferimento più circostanziato ai concreti problemi della politica del suo tempo compare nella fase giovanile e soprattutto in quella finale della sua parabola, cioè solo quando egli cominciò a travederli nella nebbia del delirio di onnipotenza, rappresentandoseli come cera molle fra le dita del proprio Ego fuori controllo. Il giovane Kalergi del 1925 è tutt’altro spirito del Nietzsche napoléonisant degli ultimi scritti “politici”. Egli, figlio di un diplomatico ed introdotto dal proprio nome negli ambienti più esclusivi della politica europea, non era certo costretto ad inventarsi quarti nobiliari inesistenti, né a ricorrere per informarsi sui retroscena della politica, alle confidenze indirette di qualche domestico. Proprio per questo la sua visione di siffatti problemi è sempre legata alla realtà effettuale direttamente e personalmente conosciuta ai livelli più alti, ed anche le perorazioni più retoriche hanno sempre radice nell’attualità concreta.

Così il principio di potenza che Kalergi ritiene di poter qualificare di “nietzscheano”, egli non lo applica a sé medesimo e nemmeno a qualche altra individualità “dominante tutti i millenni” di contentatura decisamente difficile in fatto di autogratificazioni. Se riprende il concetto di “Wille zur Macht” e “Machtwille”, non è per porre quest’arma formidabile in mano al singolo individuo che con essa nulla potrebbe costruire di realmente duraturo, ma alle grandi soggettività collettive. Ad esse - che non hanno un paradiso da guadagnare né quindi peccati da scontare - l’abito cristiano dell’agnello effettivamente non s’attaglia. Le civiltà più forti, cioè innanzitutto quella della “weisse Rasse”, hanno dunque tutto il diritto di far valere la propria superiorità, all’occasione accrescendone il pregio con il decoro della generosità: “era evidente per Coudenhove-Kalergi- scrivono E. Kovics e M. Boros-Kazai - ”che la “razza bianca” rappresentasse il potere politico principale a livello mondiale, ed egli respinse come assurda e pericolosa qualsiasi idea di una riorganizzazione della Lega in cui i non-bianchi raggiungessero la parità politica o addirittura il predominio, come sarebbe sembrato giustificato in base ai numeri.” (16) Come ebbe a scrivere nel 1928, la Lega delle Nazioni avrebbe dovuto essere “lo strumento per la preservazione della pace e del conservatorismo democratico basato sulla superiorità della razza bianca e del capitalismo.” (17).

Ora, dopo aver letto tante stravaganze, il lettore medio dei nostri tempi non si meraviglierà che alcuni interpreti ideologicamente ammodo – e che peraltro hanno avuto la compiacenza di tener conto dei testi di Kalergi – gli abbiano dato del razzista senza troppi giri di parole. Scrivono per esempio due liberal a tutto tondo, P. Hansen e S. Jonsson: “Coudenhove-Kalergi fu giustamente conosciuto come pacifista, internazionalista e anti-nazista per quanto riguardava le questioni europee. Sul tema dell'Africa, tuttavia, egli si presenta come un razzista biologico calzato e vestito [fully fledged biological racist], profondamente convinto della differenza intrinseca tra la razza nera e la razza bianca.” (18)

Con siffatta premessa si può allora ben immaginare quali dovessero essere gli orientamenti di Kalergi sulla prospettiva di una immigrazione di massa di genti africane in terra europea. Scrivono ancora Hansen e Jonsson: “È interessante notare che, mentre Coudenhove-Kalergi esortava gli europei a stabilirsi in Africa ed a sfruttarne le sue risorse, egli (...) ammonì anche l'Europa ad evitare a tutti i costi che “un gran numero di lavoratori e soldati di colore immigrassero in Europa”. Riferendosi ai soldati è probabile che Kalergi si riferisse al contestato uso da parte della Francia di truppe africane nella sua occupazione della Renania e della regione della Ruhr. Così come era inconcepibile che dei soldati di colore operassero come truppe d’occupazione nelle città tedesche (i neri del Senegal nella Casa di Goethe), così era altrettanto ovvio che medici e ingegneri europei si occupassero dello sviluppo dell’Africa. Così come era naturale temere che le truppe africane portassero con sé le malattie, la criminalità e il vizio e stuprassero donne e bambini, così era naturale ringraziare gli europei per portare la salute e la ragione in Africa. Che ne sarebbe dell’Africa se l'Europa se ne ritraesse? si chiede Coudenhove-Kalergi. “La risposta è: il caos, l'anarchia, la miseria, la guerra di tutte le tribù l’una contro l'altra”.” (19)

Nello stesso Praktischer Idealismus la parola Afrika praticamente non compare se non indirettamente per contare fra i vanti dello uomo europeo, accanto allo sterminio degli animali nocivi, anche l’”assoggettamento di gran parte dei popoli di colore scuro [dunkelfarbigen Völker]” (p. 82). Ma sulla Einwanderungsfrage, cioè sul tema delle migrazioni, lungi dall’immaginare l’arrivo di grandi masse dal Terzo Mondo in Europa per condividerne l’uggioso clima nordico ed ulteriormente sovraffollare e degradare le “weissen Grosstädte” - egli allude ancora una volta ad un movimento contrario, cioè ad uno spostamento dell’uomo europeo verso il Sud del mondo, verso territori disabitati e assolati: “tornare agli ampi spazi vuoti ed al sole! È a questo fine che da sempre gli uomini e i popoli migrano dalle regioni densamente popolate verso quelle spopolate, dalle zone più fredde a quelle calde. Quasi tutte le invasioni di massa e la gran parte delle guerre sono state la conseguenza di questa esigenza originaria di libertà di movimento, e del bisogno di sole.”
Una tale soluzione, lo s’è visto, sarebbe stata ancora esplicitamente e positivamente riproposta negli anni successivi, ma nel 1925 Kalergi si mostrava meno sicuro della sua efficacia a lungo termine. La Kolonialpolitik è bensì elencata come una delle possibili soluzioni ai problemi economici e demografici dell’Europa del tempo, ma solo come provisorisches Hilfsmittel. Non solo; qui il giudizio sullo sfruttamento coloniale dell’Africa da parte dei paesi europei è ancora più severo: “Gli uomini delle razze meridionali sono tolti ai loro ozi dorati [goldenen Musse] dai cannoni e dai fucili europei e costretti a lavorare al servizio dell'Europa. Il Nord più sprovvisto ma più forte, saccheggia sistematicamente il Sud più florido ma più debole. Lo priva delle sue ricchezze, della sua libertà e del suo ozio e per mezzo di questo furto li converte in un accrescimento della sua propria ricchezza, libertà ed ozio. A questa attività di rapina, di sfruttamento e di asservimento alcune nazioni europee devono parte della loro prosperità, con la quale hanno potuto migliorare le condizioni di vita dei propri lavoratori.” (p. 98) Ma Kalergi non propone – meno che mai in Praktischer Idealismus – un impossibile incontro paritario fra Europa ed Africa – l’ircocervo Eurafrica - come superamento di questo stato di cose insostenibile. Ciò che egli paventa è piuttosto l’inevitabile accentuazione dello scontro fra due umanità troppo estranee – “alla lunga questa soluzione andrà in contro al fallimento: perché condurrà inevitabilmente ad una terribile sollevazione degli schiavi [ein ungeheurer Sklavenaufstand], che finirà per spazzare via gli europei dalle colonie di colore e per spiantare dai Tropici gli elementi di base della cultura europea [Europas tropische Kulturbasis stürzen wird].” (p. 98)
Ancora una volta, per un attimo, nelle parole di un intellettuale europeo di quegli anni s’avverte il brontolio minaccioso d’un pericolo lontano, lo “ungeheurer Sklavenaufstand”, la spengleriana “Katastrophe” nel cui abisso nessuno osa guardare. Il devastante sormontare dei “barbarians”, dei “savages”, dei “wild beasts” destinati a distruggere ogni vivere civile, di cui profetizza Jack London in "The Scarlet Plague". Il “The horror! The horror!” con cui Conrad sigilla l’esperienza del Kurz “bianco come l’avorio” dopo la sua lunga discesa nello “heart of darkness” africano.

La vera soluzione dei propri problemi l’Europa non deve dunque trovarla in nessuna fusione, forzata o spontanea, militare o pacifica, con un qualcosa di totalmente estraneo come l’umanità africana, ma solo attingendo al proprio genio più profondo, cioè ancora una volta la sua attitudine prometeica a mettere le forze della natura al proprio servizio. “L'imperialismo coloniale e il socialismo sono palliativi, non medicine efficaci per la malattia europea; possono alleviare il disagio, non eliminarlo; rimandare il disastro, non impedirlo. Europa dovrà decidere se decimare la propria popolazione e suicidarsi – oppure risollevarsi in virtù di una forte ripresa materiale ottenuta col progresso tecnologico. Solo in quest’ultimo modo gli europei recupereranno la prosperità, l’otium e la cultura, mentre le vie di fuga del socialismo e del colonialismo alla fine si riveleranno dei vicoli ciechi.” (p. 101).
Vero è che nelle parole di Kalergi la rivoluzione tecnologica finirà per non riguardare la sola Europa, ma per assumere una valenza mondiale (“technische Weltrevolution”), ma – ancora una volta – l’eroe di questa saga epocale è l’uomo bianco, anzi meglio, l’uomo biondo germanico (“die weiße, länger noch die blonde Menschheit”, p. 77), la cui estinzione o anche il cui solo tralignamento apparirebbe chiaramente ai suoi occhi come la sconfitta dell’umanità nella sua avanguardia più intrepida e geniale: “Il creatore di quest’epoca della tecnica è il geniale popolo prometeico degli europei germanizzati. [Schöpfer dieses technischen Zeitalters ist das geniale Promethiden-Volk der germanisierten Europäer]”. (p. 89)

Ecco, come in un contesto siffatto – da condividere o condannare poi liberamente secondo l’orientamento ideologico di ciascuno – si sia comunque potuta vedere un’anticipazione della vulgata universalista attualmente dominante, o, ancor più, rintracciare la pianificazione dell’estinzione dell’umanità europea per mezzo del “meticciamento”, è cosa che fa davvero trasecolare. Raramente, se posso ricorrere alla mia personale esperienza di lettore curioso, m’è stato dato di incontrare un testo in cui ad ogni pagina risuonasse una più enfatica ed incondizionata celebrazione della peculiare missione storica dell’umanità europea. E non già - come si mormora oggi per bocca di un conservatorismo intimidito e di minime pretese – nelle sue “radici giudaico-cristiane”, ma esplicitamente nel suo Geist eroico-virile eminentemente pagano e germanico, nella sua vocazione alla potenza ed alla forza, nella sua superbia auto assertoria e – c’è poco da girarci attorno – nel suo fondamento biologico-razziale.
“Weiße Mensch“, “Blonde Menschheit”, “germanisierten Europäer“, “Nordland Europa“, “germanischen Willen und hellenischen Geist“, etc. cosa ci vorrebbe d’altro per inquadrare appieno il Kalergi di quegli anni nel pensiero di destra? Cosa dovrebbero pretendere di più esplicito i sedicenti difensori dell’Europa bianca per fare di Praktischer Idealismus uno dei loro testi di riferimento?
Lo stesso Honsik di fronte alla grottesca paradossalità della sua opera di mistificazione, ha qualche occasionale soprassalto di pudore ed ammette: “L'evoluzione della razza nordica è stata spiegata nello stesso modo dai teorici del Terzo Reich. Perché allora Kalergi auspica la degenerazione di questa razza per la quale sente così tanta ammirazione, mescolandola con i neri e gli asiatici per i quali non ha mai la minima parola di apprezzamento?” (p. 46)
Già, ma a chi lo domanda?

Né, sul fronte opposto, si può fare a meno di sottolineare ancora una volta la parallela e analoga contraffazione operata da Botz-Bornstein che, di fronte ad un autore siffatto - che avrebbe potuto onestamente ignorare - ha ritenuto invece di strumentalizzare disonestamente “to show how in the 1920s the idea of Europe was used to form an anti-essentialist model of a cultural community””. (p.565) “Anti-essentialist” detto di un autore che fa del “Wesen Europas” quasi il Soggetto hegeliano che trova la strada al riconoscimento pieno di sé proprio attraverso una “dialettica d’essenze” con l’altro-da-sè rappresentato dall’Asia. La Grecia, rileva Kalergi, in tanto “ha prefigurato l’Europa in quanto per la prima volta ha stabilito una distinzione di essenza [Wesensunterschied] fra sè e l’Asia”. (p. 84) Tale originaria coscienza di sè viene ad offuscarsi ed a trovare la propria fase negativa con la decadenza della Grecia classica. Così “Il mondo di Filippo II [di Macedonia] non ha rappresentato alcun progresso culturale, in termini d’essenza [wesentlichen] rispetto al mondo di Hammurabi.” Né, nella sua decadenza, l’impero di Roma “si differenziò minimamente in termini d’essenza [wesentlichen] rispetto ai dispotismi orientali della Cina, della Mesopotamia, dell’India o della Persia.” (p. 85) “Non fu – conclude Kalergi – che con l’emancipazione dell’Europa dal cristianesimo – iniziata col Rinascimento, la Riforma, e proseguita con l’Illuminismo sino ad attingere al suo culmine con Nietzsche – che l’Europa è tornata a se stessa e si è separata spiritualmente dall’Asia [trennte sich geistig von Asien].” (p.84) E’ a questo punto, culminante non solo nel vitalismo di Nietzsche ma anche nell’empito trasformatore di Karl Marx, che si ritrova “das Wesen des europäischen Geistes“: “L'Europa deve rimanere fedele alla sua missione e giammai rinnegare le scaturigini della sua essenza [Wesen]: eroismo e razionalismo, volontà germanica e spirito greco. (...) Solo se l’Europa (...) rimarrà fedele ai suoi ideali germanici ed ellenici, potrà allora portare a compimento la sua battaglia per il progresso tecnologico, redimendo se stessa ed il mondo.” (pp. 122-3)


E la famigerata Zukunftrasse, una buona volta? Per liberarci infine di questo fantasma, definiamolo per quello che è: indiscutibilmente essa allude ad una futura fusione fra le tre grandi unità razziali del mondo, quella bianca, quella africana e quella asiatica. Ma è altrettanto oggettivo che si tratta di un apax legomenon, cioè di un concetto che appare incidentalmente una volta per non comparire più, né essere ulteriormente sviluppato né in questo testo né altrove. Bisogna dunque pensare che la “fernen Zukunft”, di cui qui si parla sia davvero una “ganz fernen Zukunft”, un futuro remotissimo in cui a sparire sia “die Vielfalt der Völker”, cioè la pluralità dei popoli in generale, e non certo solo quelli europei o bianchi in particolare, distrutti da un “Piano” peculiarmente dedicato ad essi. Dunque tutt’altro scenario, su cui comunque Kalergi non ritenne di strologare con ulteriori ipotesi. D’altra parte i saggi di geopolitica si distinguono dai volantini perché vanno letti per intero e soppesati nel loro equilibrio complessivo. Ed invece una sola frase isolata, una semplice espressione occasionale come ”euro-negroide” emotivamente efficace ad esser sbandierata come slogan per un triviale adescamento ideologico, è sembrata bastante per operare un completo rovesciamento della realtà, e per fare insensatamente di Praktischer Idealismus il “liber sacerrumus” dell’odio contro la civiltà europea.


Conclusione.


Si potrebbe qui insistere e vedere magari quali ulteriori sviluppi ebbe il pensiero di Kalergi nella sua maturità, in particolare dopo l’esperienza di un nuovo conflitto tra le nazioni europee di lì ad un quindicennio. Ma s’avrebbe sempre meno a che fare con lo spunto da cui s’era cominciato, che, come s’è visto, era un Kalergi del tutto immaginario ed un’opera dal contenuto affatto diverso da quello che le è stato attribuito. La verità è che l’autentico dottor Frankenstein, dal punto di vista storiografico, si dimostrano proprio Honsik e gli altri che continuano a tirare in ballo la memoria di un Conte a cui hanno ridato vita artificiale mettendo insieme membra della letteratura cospirazionista col collante poco attaccaticcio di un’unica breve citazione. Non solo; essi hanno reso particolarmente spregevole questa loro operazione, infamando una figura come Kalergi a cui - quale che sia il giudizio complessivo che se ne voglia dare – andrebbe riconosciuta almeno la buona fede e l’entusiasmo nell’attaccamento alla patria europea.

Ciò detto, una qualche piccola concessione va fatta anche agli Honsik, ai Seeger, agli Holmig. In un qualche modo Kalergi, sia pure del tutto suo malgrado, se l’era andata a cercare. La sua “physique du role” era quasi perfetta, ben più di altri possibili concorrenti al casting per la parte. Per il pubblico micro-borghese cui Honsik conta di rivolgersi – del tutto disabituato a documentarsi e assai più proclive alle sbrigative appercezioni emotive di una foto, di un nome, di uno slogan, di una breve citazione - questa figura di Mehrseelenmensch, di uomo multanime nato da un incrocio transcontinentale, ispira diffidenza ed antipatia già per come si presenta, a partire dal suono arcanamente esotico e levantino del nome, sino al naso affilato ed agli occhi taglienti e ironici con cui ci fissa dalle vecchie fotografie - lo sguardo dell’aristocratico avvezzo a frequentare gli ambienti più rarefatti e, soprattutto, abituato a “fregare i poveracci” - diciamo così - per inveterata tradizione. Volle avere, certo, la spiacevole indelicatezza di non nascere anche ebreo e così di lasciare non perfetto il quadro, ma rimediò in parte con il matrimonio e con una lunga frequentazione di Logge massoniche. A partire da un’antropologia di tal fatta, non c’è accusa che non sia giustificata in partenza, a prescindere da quanto egli possa aver detto o non detto. Non c’è guasto, reale o presunto, dell’Europa attuale, al quale non debba aver dato il proprio contributo.

Così nel ritratto le pennellate di grottesco abbondano: fra le tante altre accuse che Honsik muove a Kalergi, per esempio, è compresa quella d’aver contribuito a stravolgere il ruolo tradizionale della donna aprendo la strada al femminismo. Sotto la foto di una soldatessa, Honsik scrive: “Vediamo una donna armata dell'esercito americano. Nel mondo di Kalergi, l'attacco alla donna viene camuffato sotto la maschera della “parità di diritti” (...) la sua riduzione in schiavitù travestita da “emancipazione”. Dopo averle concesso il “diritto” di lavorare, di rinunciare ai figli, di contentarsi di salari minimi, ora potrà andare anche in guerra. Gli istinti che nel mondo animale inibiscono la violenza nei confronti della femmina devono essere annullati.” (p. 229) “Il Piano Kalergi non si potrà realizzare se non consegue lo svuotamento della famiglia in tutti i suoi aspetti.” (p. 142)
Peccato che “en el mundo de Kalergi” (oltretutto accanito antimilitarista per gli uomini, figuriamoci per le donne) si condividessero appieno, e già ottant’anni prima, le preoccupazioni del fantasioso storico austriaco. Si legge infatti in Praktischer Idealismus: “L'emancipazione delle donne è un sintomo della mascolinizzazione del nostro mondo: perché non porta il tipo femminile al potere - ma il tipo maschile. Mentre in passato la donna femminile attraverso la sua influenza sull'uomo ha partecipato al dominio del mondo - oggi degli uomini di entrambi i sessi [Männer beiderlei Geschlechtes] brandiscono lo scettro del potere economico e politico. L'emancipazione delle donne è il trionfo della donna mascolinizzata sulla donna autenticamente femminile; non porta alla vittoria - ma all'abolizione della femminilità. La signora sta già scomparendo: la moglie deve seguirla. A causa della emancipazione il sesso femminile che in precedenza era stato in qualche modo rispettato, è mobilitato e inquadrato nell'esercito del lavoro.” (pp. 118-9).

Sulla verosimiglianza di un altro punto della maquinación – e cioè “el ataque americano a la cultura alemana” - fa poi testo – in rapporto alla diffusione in Germania del jazz a scapito della sua grande tradizione musicale classica - nientemeno che la presenza di …Theodor Adorno (!). (p. 128) Così come i finanziamenti della CIA ai grandi artisti dell’informale contemporaneo come Pollock o De Kooning “che forman parte de la guerra contra lo bello” (p. 127). E infatti “no habría “arte moderno” sin los servicios secretos americanos de la CIA.” (p. 122). Quanto all’elogio di Kalergi del contributo ebraico all’arte ed alla scienza europee, basti l’ineffabile commento honsikiano: “Es sabido además, que Einstein se equivocò.” (p. 27) E ancora: quando accosta il Piano Kalergi ai famosi Protocolli dei Saggi di Sion, Honsik puntualizza con encomiabile scrupolo che questi ultimi parrebbero una “una falsificación”. “Pero – conclude impagabile - el plan de Kalergi es real y comprobable, y todos somos testigos de ello.”… (p. 234). D’altra parte come aver dubbi sulla realtà del complotto kalergo-giudaico se persino sulla bandiera dell’Unione europea si vedono effigiate “las doce estrellas en memoria de las doce tribus de Israel”? (p. 72)
Siffatte farneticazioni sono impagabili. Sarebbe - che so - come considerare “héroe de la paz” il gerarca nazista Rudolf Hess e accostarlo in un medesimo elenco ai nomi di Cristo, Buddha, Socrate e Suor Teresa di Calcutta. …E infatti vedi alle pagine 56 e 64.

D’altronde il “complotto” è concetto siffatto; esso ha una valenza “figurale”, per parafrasare Auerbach: le sue manifestazioni non presentano mai, né potrebbero, il volto verace della soggettività che le concepisce e le implementa, ma non sono per questo meno reali e concrete; la grande “Maquinación” affiora or qui or lì da mille contrassegni, da mille indizi, da mille sintomi e il suo storico non può far altro che offrire un’elencazione alluvionale e frenetica di queste infinite “figure” che assume. (20) Così fra Honsik e Seeger soltanto, i covi della cospirazione antieuropea vanno dall’ebraismo internazionale (che peraltro infiltra un po’ tutta la concorrenza) alla Massoneria, dal Gruppo Bilderberg all’alta burocrazia europea, dalla CIA al Vaticano sino alla mafia ed alla Scuola di Francoforte. E dietro tutte queste “centrali”, e dietro il primo eone - l’eterno Judentum - non manca mai di stagliarsi, immancabile e minacciante, il grifagno profilo dell’Aquila dalla Testa Bianca, scaturigine prima d’ogni malizia.
Infatti il “Piano Kalergi”, per quanto abbia come eroe eponimo un aristocratico mitteleuropeo e come direzione esecutiva la centrale dell’ebraismo internazionale, in ultima istanza non sarebbe che l’espressione della volontà statunitense di affossare definitivamente la vecchia Mutter Europa, premessa indispensabile per il proprio incontrastato dominio mondiale. Come sottolinea il negazionista svedese Göran Holming, autore del Prologo allo scritto di Honsik: “Finalmente, Honsik no responsabiliza a los judíos por llevar a cabo el Plan de Kalergi, sino al imperio de los Estados Unidos, que reemplazó al Plan Morgenthau por las maquinaciones de Kalergi y trata de realizarlas para subyugar Europa.” (p. 11)
Sul “Piano Morgenthau” Honsik in effetti si dilunga di continuo nel suo saggio. Va detto che, contrariamente a quello di Kalergi, il ‘Piano’ che porta il nome di Henry Morgenthau Jr., Segretario al Tesoro degli Stati Uniti dell’amministrazione Roosevelt, fu un fatto storico reale. Esso nel 1944 riprese la filosofia di Clemenceau già sciaguratamente prevalsa nel primo dopoguerra e mirante ad una pace stabile in Europa sul presupposto di una Germania ridotta ad un’economia esclusivamente agricola e pastorale. Peccato che nello scritto di Honsik il continuo richiamo a tale Piano – subito abbandonato dal governo statunitense - finisca per mettere sotto totale silenzio l’altro ben diverso che seguì di lì a un paio d’anni e destinato invece ad essere concretamente implementato fino al 1951 - il Piano del generale George Marshall - il cui nome non viene citato neppur una volta dal fededegno storico austriaco. Questo piano - fra i tanti evocati, l’unico di cui la storia dia effettiva testimonianza - trasferì in pochi anni in Europa la cifra allora astronomica di 17 miliardi di dollari di aiuti alla ricostruzione, di cui un miliardo e mezzo alla sola Germania, ancora piena dei frammenti delle sue croci uncinate.

Antiamericanismo, antisemitismo, complottismo… Ritornano ancora come ben si vede, i vecchi miti senza i quali pare quasi che un pensiero di destra debba ritrovarsi vuoto e privo di senso, e soprattutto privo di un suo pubblico. In effetti l’opera di falsificazione di Honsik - su Kalergi come su mille altri dettagli storici e teorici – è siffatta che sulla sua totale malafede non può esservi dubbio alcuno. Ma egli sa anche che quello a cui si rivolge è, come s’è già detto altrove, un pubblico piccolo-borghese incolto, impreparato, emotivo, che mai metterà mano ad altri testi per durare la fatica di una comprensione critica e consapevole. Una volta ottenuto quel che cerca – un’intrigante favola gotica in cui l’eroe malvagio evoca le vecchie potenze del male per attossicare il mondo – si terrà contento ed appagato e non troverà nessun gusto per il sapore insipido della conoscenza oggettiva e spassionata della realtà, con le sue sfumate complessità, con la disciplina dell’intelligenza che esige.
Il risultato è però che l’unico tossico che alla fine si vedrà realmente all’opera sarà stato solo quello della banalizzazione e dell’infantilismo, e quindi alla fine quello definitivo del ridicolo. Coloro che si trastullano onanisticamente con puerili fantasie non possono alla fine che ritrovarsi soli, nel ghetto della loro insignificanza, e di fronte ad un tale miserrimo avversario, ecco che anche l’ideologia universalista più corriva può assurgere al ruolo di unica opzione dignitosa ed accettabile, e dilatare così il proprio bolso “politicamente corretto” a vera e propria Weltanschauung assoluta. E parimenti il pubblico “di sinistra” a cui si rivolge – di per sé in gran parte non meno piccolo-borghese, incolto ed intellettualmente sprovveduto - si terrà autorizzato a sentirsi parte invece di un raffinatissima élite dell’intelligenza e a dare – è cosa che vediamo ordinariamente – dell’ignorante a chi non vuol contemplare il mondo, come loro, dal tacco alto del conformismo.

Il fatto è che entrambi questi due poli ideologici partono da un medesimo e fatale presupposto: e che cioè il dibattito ideologico e politico non possa esser più portato nella pubblica opinione nei suoi termini reali, nella sua effettiva complessità. Si dà per scontato che oramai, stante il suo livello intellettuale e morale, gli unici mezzi efficaci per smuoverne il corpaccio siano i sapori forti della mitologia complottista (si veda il successo recente in Italia di un movimento che ha fatto del complottismo il nucleo teorico pregiato della propria cultura politica) o la sferza del conformismo intimidatorio.
Ma una tale deriva paternalistica delle élites politiche ed intellettuali e la passività con cui la pubblica opinione sempre più la subisce, rappresentano - per chi abbia un minimo di conoscenza storica – un ben funesto presagio.
La storia europea alle nostre spalle, pur nella complessità delle sue vicende, parla infatti un linguaggio lineare e chiarissimo: al centro stesso della eredità civile dell’Europa – cioè dei suoi valori più alti di libertà, di dignità dei singoli all’interno di una forte coscienza del vincolo politico, di razionalismo, di laicità etc. - sta essenzialmente un fenomeno singolare ed unico nella storia – ed anche molto enigmatico nelle sue più profonde motivazioni -, e che cioè dall’inizio dell’età moderna in due delle sue grandi nazioni – Francia e Gran Bretagna – le élites al potere non abbiano avuto la forza per rinserrarsi definitivamente in oligarchie inaccessibili alla restante società dei governati.
Così dalla Zivilisation anglo-francese – quella Zivilisation poi tanto deplorata da innumerevoli intellettuali tedeschi – non solo è nata lentamente la democrazia per quei paesi, ma si è irraggiato anche il calore che ha sciolto l’immobilità sociale delle regioni limitrofe, della Germania, dell’Italia, della Spagna e delle altre minori. Questi paesi ancora nel Settecento vivevano una separazione quasi totale fra le élites ed il resto della popolazione, e non è per nulla detto che senza l’influenza delle due grandi nazioni occidentali, questa sclerotizzazione si sarebbe disciolta egualmente o non piuttosto perpetuata indefinitamente. Non a caso le minoranze più illuminate di quei paesi accolsero con entusiasmo le successive invasioni rivoluzionarie francesi, che pure si aprivano il passo fra disagi materiali e prepotenze militari. Tutto ciò mentre la Gran Bretagna per parte sua aveva intanto esportata quella cultura nell’America anglosassone e nel restante impero, dove il credo costituzionale del “We, the People” è stato poi la divisa del culto laico della democrazia aperta, in cui ogni individuo può salire, come discoscendere, nella gerarchia sociale soltanto in virtù dei suoi meriti o dei suoi errori.

Nulla ha senso di ciò che sostanzia la nostra civiltà occidentale, anche in alcuni suoi riusciti innesti in Estremo Oriente, se non alla luce della cosiddetta “circolazione delle élites”, cioè della mobilità sociale - come fra l’altro lo stesso testo di Kalergi, l’abbiamo visto, sottolinea di continuo. Senza di essa non solo la gran massa delle popolazioni è mantenuta nella sudditanza e nell’inerzia, ma va incontro a progressiva degenerazione e senescenza anche la stessa classe dirigente, privata di un ricambio indispensabile. La politica diventa oppressione, la cultura si fossilizza, la scienza è guardata con ostilità. Nessun esempio più chiaro di un simile tracollo che la vicenda della penisola italiana dopo la grande stagione rinascimentale. Con la “serrata dei consigli” cinquecentesca si inverte quel sommovimento sociale che aveva caratterizzato l’economia tardo-medievale e che del successivo Rinascimento era stata la linfa: signori e plebei si rinchiudono nelle loro consorterie e si sforzano a vivere in una sempre più squallida autarchia spirituale. Il pitocco del Cerruti e il nobilomo di Fra’ Galgario sono i due ritratti di quell’Italia sei-settecentesca: due deformità, due decrepitezze, due esperienze consunte che si trovano a fronte. Entrambi a formare la brutta immagine del Fellachenvolk, del popolo politicamente spento che vive inerte e passivo sotto il piede di dominatori stranieri.

In conseguenza di ciò la prospettiva di una sempre maggior separazione fra le élites e il resto della popolazione – che in Italia ha già quest’infelice tradizione sua propria – diviene oggi più che mai pericolo reale, anche in conseguenza di tendenze demografiche e culturali che il conformismo ideologico universalista impedisce di valutare con mente obbiettiva. Gran parte della migrazione di massa che arriva in Europa proviene da contesti che nella loro lunga storia hanno ignorato qualunque esperienza di mobilità sociale e di “circolazione delle élites”, cioè di democrazia e di partecipazione politica diffusa. Quali conseguenze questo potrà avere sul nostro continente è questione di indiscutibile realtà e gravità, che non dovrebbe esser lecito né zittire con le demonizzazioni a cui ricorre il conformismo di sinistra, né mettere in caricatura con le mitomanie grottesche della destra. E’ questa congiura del silenzio della ragione, il vero complotto in atto contro l’Europa.
Né ci si inganni sul nuovo protagonismo di massa che oggi sembra regnare nella nostra società grazie a nuovi media in grado di dare voce un po’ a tutti. Nei risultati pratici altro non si dimostra che l’aggiornamento tecnico d’un masaniellismo di lunga tradizione: il contrapporsi emotivo e ribellistico della plebe all’élite dominante, che di colpo avvampa isterico e virale e subito si spegne, perché in cuor suo dà per scontato che comunque - sul piano della conoscenza, della coscienza di sè, dell’educazione - quell’elite è e resterà sempre superiore e irraggiungibile, e che quindi è vana, anzi presuntuosa e ridicola, ogni pretesa di voler comprendere e giudicare in prima persona.
In fondo perfino Gerd Honsik l’aveva capito: …”cruel, pero sin carácter”.

Ma con questo mezzo passo nelle irrilevanti opinioni personali, ci troviamo a dover concludere: sul fenomeno immigratorio in Europa si possono avere le proprie libere opinioni, e, se veramente libere, meglio ancora se intime. Ma un minimo di amor di verità e di rigore storico ci impone di lasciare tranquillo il nostro Conte Coudenhove Kalergi a dormire nella sua tomba. Non essendo un Conte transilvanico non c’è nessun motivo di andarlo ad oltraggiare per piantargli in cuore un cuneo fatto di plastica.


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(1). Hewitson, M., D'Auria, M. (edds.), Europe in Crisis. Intellectuals and the European Idea, 1917-1957. p. 92. (2). Kovics, E., Boros-Kazai, M., “ Coudenhove-Kalergi’s Pan-Europe Movement on the Questions of International Politics during the 1920s.”. 1979. p. 259. http://libgen.in/scimag/get.php?doi=10.2307%2F42555262
(3). Das Pan-Europäische Manifest, p. 10. http://verfassungsvertrag.eu/II-01.PDF
(4). Paneuropa, 1922 bis 1966. Estratti www.cvce.eu/en/obj/richard_coudenho...881c423eb6.html, p. 4.
(5). Mutterland Europa, p. 24. https://archive.org/details/mutterlandeuropa00coud
(6). B. Strath (ed.), Europe and the Other, Europe as the Other, p. 144.
(7). Das Pan-Europäische Manifest, 1924, www.thenewsturmer.com/.../DAS%20EUROPÄISC. p. 4.
(8). Op. cit. p. 9.
(10). Nelle parole di Honsik - o meglio in quelle del Prof. Guido Raimund, avatar incaricato degli spropositi più grossi – il Piano Kalergi, finalizzato com’è all’annientamento delle genti europee su scala planetaria, avrebbe fra le sue prescrizioni anche quella di una orientalizzazione dell’Australia da raggiungersi, anche lì, attraverso una massiccia immigrazione: “También en Australia, la raza nordeuropea, tan admirada y temida por Kalergi, debe convertirse en minoría.” (51)
(11). www.stadtbibliothek-reutlingen.de/t...eload_coolmenus 134.103.222.2/gea/1929-09-12.pdf. L’articolo fu pubblicato anche sulla rivista Paneuropa.
12. “Non ho mai sentito così fortemente – scrive Schweitzer - la potenza vittoriosa di ciò che è più semplice nell'insegnamento di Gesù, come quando, nella grande aula scolastica di Lambarene, che serve anche come chiesa, sono stato a spiegare il Discorso della montagna, le parabole del Maestro, e le parole di San Paolo sulla nuova vita in cui viviamo.” (A. Schweitzer, On The Edge Of The Primeval Forest, 1922. Tr. ingl. pp. 155-6. https://archive.org/details/ontheedgeofthepr007259mbp
(13). Op. cit. p. 150.
(14). “Marx è il profeta del domani – Nietzsche è il profeta del post-domani. Tutti i grandi eventi sociali e spirituali dell’Europa attuale sono legati in un modo o nell’altro all’opera di questi due uomini: la rivoluzione mondiale dal punto di vista sociale e politico è posta sotto il segno di Marx – la rivoluzione mondiale, dal punto di vista etico e spirituale, è posta sotto il segno di Nietzsche. Senza questi due uomini il volto dell’Europa sarebbe diverso.” p. 150
(15). Das Pan-Europäische Manifest, p. 11.
(16). E. Kovics e M. Boros-Kazai, cit. p. 256.
(17). Cit. in E. Kovics e M. Boros-Kazai, p. 260.
(18). Peo Hansen e Stefan Jonsson, Eurafrica, The Untold History of European Integration and Colonialism,2014. p. 38-9
(19). Op. cit. pp. 38, 40. La citazione di Kalergi è tratta dalla versione dell’articolo pubblicata in Paneuropa: Afrika, Paneuropa Vol. 5, No. 2, 1929, pp. 3, 5.
(20). E d’altronde come giudicare troppo severamente questa pubblicistica di destra “ad usum plebis”, se oggi, con le anticipazioni sugli ultimi testi inediti di Heidegger, vediamo un pensatore di tale livello che si trastulla con fantasie se possibile ancora più farneticanti? Fantasie in base alle quali la giusta interpretazione della “jüdischen Weltverschwörung”, del complotto mondiale ebraico, porterebbe ad intendere lo stesso Olocausto nei termini di “autoannientamento ebraico”?

Edited by Institor - 28/4/2016, 15:07
 
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