Coudenhove Kalergi. I. Il risveglio del Conte.

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view post Posted on 14/1/2015, 12:56
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Richard von Coudenhove Kalergi.
Il risveglio del Conte.



Guido De Pascale.



Book-Cover-Coudenhove-Kalergi-Praktischer-Idealismus-1925



R-N. Coudenhove Kalergi, Praktischer Idealismus. Adel-Technik-Pazifismus. Paneuropa-Verlag. Wien-Leipzig 1925.
https://archive.org/details/Coudenhove-Kal...cher-Idealismus



Gentile lettore, posso forse immaginare perché tu sia giunto sin qui. Di fronte allo spettacolo dei cambiamenti drammatici che si profilano nel nostro continente, il nome di Coudenhove-Kalergi viene evocato sempre più spesso. E’ dunque comprensibile che se ne voglia sapere qualcosa di più e di più fondato.
In effetti i due articoli da me scritti su questo autore - quale che ne sia il valore – si sono basati su di una lettura attenta di tutti i testi che m’è riuscito di reperire.
Ma, ahimè, non so se alla fine, se pure durerai la fatica di leggerli, potrai dirti soddisfatto di quanto vi avrai trovato. Essi – credo - dimostrano senza possibilità di dubbio che il mito secondo cui il povero Conte Kalergi sia stato a suo tempo l’autore di un “piano” destinato a preparare la rovina del continente europeo tramite l’immigrazione di massa dal Terzo mondo, non solo è una totale falsità, ma rovescia sfacciatamente la realtà storica.
Kalergi è stato uno dei più ardenti e appassionati patrioti dell’Europa, di cui decanta incessantemente le virtù di genialità, di volontà, di coraggio. L’idea di distruggere i popoli europei, ed i popoli “bianchi” in generale – l’avrebbe fatto inorridire, e più volte, anzi, manifestò il timore che ciò potesse avvenire. Dei popoli africani, poi, pur non usando parole crudeli o sprezzanti, egli dà un giudizio completamente negativo, non qualificando la loro civiltà che come “Elend” e “Barberei”, cioè “miseria” e “barbarie”.
Lo stesso autore che ha rilanciato l’impostura del “piano Kalergi”, Gerd Honsik, arriva addirittura ad ammettere che il giudizio di Kalergi sulla gerarchia delle razze umane non era poi molto remoto da quello dato dai teorici del Terzo Reich.
Insomma, continuare a citare Kalergi come il pianificatore dell’africanizzazione dell’Europa è, dal punto di vista storico, una totale impostura.
Permettimi di aggiungere anche un’altra cosa. Se veramente hai attaccamento al tuo paese ed al tuo continente ed allo straordinario retaggio di civiltà e di grandezza che ti hanno consegnato, non cercare di difenderli con argomenti da nulla, che nulla valgono e a nulla servono.
Informati, leggi, studia, cerca di capire con la tua testa, perché le forze storiche che stanno spingendo l’Europa verso un declino irreparabile, ci sono e sono realmente all’opera. Ma non si tratta di “centrali occulte” che si riuniscono in segreto per complottare e ordire "piani". Sono al contrario le forze culturali del conformismo universalista che vedi ogni giorno ovunque sulle pagine dei giornali o nelle immagini delle televisioni. Sono voci per lo più impudenti, mistificatrici, ipocrite. Vanno affrontate a viso aperto, con l’intelligenza e la conoscenza dei fatti - gli strumenti appropriati d’ogni causa veramente giusta.



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Nell’incontenibile bulimia intellettuale indotta dal web, giustamente non ci si fa mancare nulla. Così m’era venuta da tempo la curiosità di veder qualcosa su di un certo Conte Richard Nikolaus von Coudenhove-Kalergi, esponente, come il nome dice, della più titolata nobiltà europea (la casata Kalergi o Calergi è quella del palazzo sul Canal Grande in cui morì Richard Wagner) e, per parte della madre giapponese, addirittura di un’antica famiglia di samurai.
Ufficialmente la sua eredità spirituale è legata all’ideale dell’Europa unita, avendo contribuito da protagonista all’elaborazione teorica ed alle mediazioni diplomatiche da cui è nata l’attuale UE, di cui fra l’altro propose come inno ufficiale l’An die Freude di Schiller e Beethoven. Esistono anche un premio ed una medaglia intitolati al suo nome e destinati a politici illustrati da meriti comunitari.
In realtà però, più che da queste polverose benemerenze europeiste, la sua presenza sul web è stata sempre più incrementata negli ultimi tempi dalla fama di essere stato il teorico di un arcano complotto - il cosiddetto “Piano Kalergi” – avente ancora come scopo l’unificazione e la pacificazione dell’Europa, ma da realizzare – e qui sta il punto – con mezzi del tutto particolari.

Dalla “letteratura secondaria”, diciamo così, da cui avevo appreso per la prima volta l’esistenza dell’inquietante Conte, tale piano veniva esposto in termini piuttosto vaghi ma certo non privi d’un aggancio all’attualità. Si sarebbe trattato - per riassumere in due parole quel che ne avevo capito - di una sorta di estremo rimedio al carattere indocile dei popoli europei. Lungo tutta la loro storia essi hanno infatti manifestato un tratto reattivo e aggressivo che li ha portati a continue guerre intestine e in seguito anche imperialiste. Guerre che, con lo sviluppo della tecnologia, sono arrivate a trascinare l’intero pianeta in due grandi scontri mondiali.
Alla fine dunque la spazientita élite internazionale - i “poteri forti” planetari - avrebbe deciso di depotenziare e devirilizzare una volta e per tutte l’inquieto continente. E per ottener ciò con sicurezza di risultato, l’unica terapia ritenuta efficace sarebbe stata quella di rimpiazzare progressivamente la stirpe europea con una nuova razza creata dal meticciamento con milioni di migranti provenienti da paesi dell’Africa e del Medio Oriente asiatico. Son vicende che sarebbero maturate soprattutto dopo la seconda guerra mondiale e implementate via via sino ad oggi, ma a teorizzare per primo tale strategia “eurocìda”, già all’indomani della Prima guerra mondiale, sarebbe stato appunto il Conte Coudenhove-Kalergi con l’auspicio esplicito di una nuova “eurasisch-negroide Zukunftsrasse”, la “futura razza euro-asiatico-negroide”, che si sarebbe presentata all’apprezzamento antropologico non troppo dissimile dall’antico popolo dei fellah egizi, “äußerlich der altägyptischen [Rasse] ähnlich”. A governare questi post-europei, finalmente inoffensivi e politicamente inerti, sarebbe rimasta un’élite in cui, sempre nella profezia attribuita a Kalergi, la componente ebraica avrebbe avuto il ruolo preponderante.

Ora, una simile sceneggiatura - basata per lo più, come si addice ad ogni piano occulto, su relata refero - appariva immediatamente come quella di un qualsiasi B-movie del filone cospirazionistico così frequentato da certa cultura dell’estrema destra antisemita. Non a caso l’unica opera a stampa di una certa ampiezza che a mia conoscenza l’avesse esplicitamente preso a tema, ed alla quale anzi si deve probabilmente il nuovo smalto del nome di Kalergi, era un apparentemente corposo libro dell’austriaco Gerd Honsik, “Adios, Europa. El Plan Kalergi”, pubblicato nel 2005 (1). Honsik s’era già fatto notare negli anni ’90 quale sostenitore di tesi negazioniste sull’olocausto, procurandosi così, nemmeno a dirlo, una serie di processi penali che l’hanno portato alla latitanza in Spagna da dove è stato poi ricondotto in patria da un paio di manette.
Insomma tutt’altro che un auteur de chevet, tanto più che il suo saggio, disponibile in rete nell’edizione originale spagnola, ha anch’esso tutte le caratteristiche del libello propagandistico messo su a forza di espedienti: indice chilometrico con decine di capitoli e paragrafi lunghi poi in media qualche riga; caratteri tipografici grandi e ampi spazi bianchi; numerose illustrazioni non proprio indispensabili; e perfino le chiose esplicative di un certo Prof. Guido Raimund, che però sembrerebbe essere non altri che lo stesso Honsik il quale, amante dei misteri qual’è, si cela sotto pseudonimo in un suo stesso libro, per poter ripetere due volte i medesimi concetti. In uno di questi commenti si legge dunque che “Kalergi quiere una clase de seres inferiores: Por medio del cruce racial, el padrino de la UE espera crear un ser humano sin voluntad ni carácter. De esta manera, un moderno Doktor Frankenstein es libre de dirigir Occidente. Como puede observarse, se ocultan seres viles, racistas y genocidas detrás del antirracismo europeo.” (p. 15)
Un altro testo di qualche ampiezza, e probabilmente precedente (il testo è senza data; Google libri riporta il 1984) è quello di un ancor meno noto Wolfgang Seeger, intitolato icasticamente “Il declino dei popoli d’Europa verso un meticciato euro-asiatico-negroide. Tutela etnica per il popolo ebraico”, in cui già compare l’accenno esplicito al “Paneuropa-Plan von Coudenhove-Kalergi”. (2)

Autori come Honsik o Seeger, come tanti altri dello stesso orientamento, rimangono in genere confinati all’interno di un circuito comprensibilmente ristretto. Si può dire tuttavia che mentre nei suoi testi negazionisti Honsik aveva rivangato un terreno in cui, come che stiano le cose nei dettagli, il giudizio storico e morale è oramai archiviato e ben poco costrutto ci sarà mai a polemizzare ancora sul libretto di istruzioni del Ziklon B - rispolverando il logo del “Piano Kalergi”, ha invece in qualche modo colto nel segno. Il fenomeno migratorio dal Terzo mondo in Europa, come che lo si voglia giudicare, ha tutte le potenzialità per rimodellare in profondità gli assetti sociali e culturali del nostro continente, con effetti a lungo termine non privi di aspetti, diciamo così, poco chiari. Il tag di Honsik ha finito dunque per guadagnare una sua certa popolarità in rete, come si può facilmente constatare, anche al di fuori del circuito dei siti di estrema destra. D’altra parte idee assai simili - si pensi al concetto di Eurabia elaborato dalla Bat Ye'or e ripreso dalla Fallaci o a quello del cosiddetto Grand Remplacement teorizzato in Francia da Renaud Camus - continuano a riproporsi anche prescindendo del tutto dal nome di Kalergi. Non è un caso che ad apertura del suo saggio, Honsik ammonisca significativamente che chi vuol conoscere la natura del Piano “lo podrà leer en este libro”, oppure, “simplemente siga mirando per la ventana.” (p. 3).

Non è a dire che, con tali premesse, i pochi commenti alle tesi di Honsik che mi è capitato di incontrare da parte dell’ideologia del politicamente-corretto, non fossero tutti improntati alla consueta irridente sufficienza e spazientito disprezzo che usualmente essa riserva a chiunque non ami la musica corale: il piano Kalergi è un’invenzione (ma i suoi libri li hanno letti?), il Conte aveva per parte sua tutt’altre idee (già, ma quali?) e comunque dimostrare un qualsivoglia interesse alla questione già basta per dichiararsi neonazisti (amen).

Per quanto riguarda me, ad incuriosirmi era il fatto che, contrariamente ad altri miti complottistici effettivamente uggiosi e inconsistenti – orditi per lo più da poteri e da gruppi occultatisi in maniera talmente efficace da conseguire l’inesistenza - questa volta c’era almeno il riferimento al nome di un intellettuale e politico oramai dimenticato, ma a suo tempo stimato ed influente (il cui primo nome era Coudenhove, cui qui preferiamo quello di Kalergi per adeguarci all’uso della pubblicistica che esaminiamo), e soprattutto ad una sua opera ben precisa, un saggio del 1925, intitolato ermeticamente Praktischer Idealismus, attorno al quale in rete s’avvolgono volute sulfuree, bisogna ammetterlo, estremamente intriganti. In un sito “europeista” d’estrema destra – giusto per fare una citazione fra le tante possibili - s’apprendeva per esempio che “il mondo economico e politico internazionale nasconde uno scabroso retroscena, all'insaputa di tutti. Una questione scottante da trattare con le pinze e con il tatto dovuto, che ha da poco provocato l'arresto e la detenzione di Gerd Honsik, storico e poeta austriaco, colpevole di aver reso nota la vicenda attraverso le sue pubblicazioni. Questa storia è legata ad un oscuro personaggio e ad un nome, completamente sconosciuto all'opinione pubblica ma di grande importanza per le caste privilegiate di questa società. Questo nome, non dimenticatelo, è Richard Coudenhove Kalergi. (...) non c'è traccia dell'opera principale di Kalergi, che denota a pieno la personalità del politico e che può essere considerata il suo testamento filosofico. Questo libro, titolato “Praktischer Idealismus” è tuttora censurato in Germania e non risulta acquistabile e disponibile in nessuna libreria, né nuovo, né usato. Strano davvero! La rivista tedesca ''Unabhängige Nachrichten'', intorno ai primi anni Novanta, ha annunciato la pubblicazione di una sintesi del libro, facendo infuriare le autorità che hanno immediatamente proceduto alla confisca dell'unica copia stampata dall'editore.” (3)
Oltre a queste singolari circostanze – che penso già bastino ad assolvere la mia curiosità - v’era, come s’è accennato, il legame con fenomeni di indiscutibile attualità nei quali personalmente non ho mai trovato spunti di ironia, e che anzi mi sembrano degni di un’attenzione ben diversamente grave. E quindi, avendo certo una sana diffidenza per i poteri forti dei grandi vecchi, ma tantomeno fidandomi dell’arrogante saccenza dei born learned della sinistra culturale – ho voluto documentarmi di persona sul reale pensiero di Kalergi (in particolare quello dei primi anni ’20). E poiché al genio del web ormai pare non si debba far altro che digitare un proprio desiderio per vederlo realizzato, ho cercato e trovato lo scritto del 1925, la cui originale edizione tedesca è (per quanto se ne dica) liberamente disponibile sulla rete. E incoraggiato dal fatto che per lo meno non era, come si poteva temere, in caratteri gotici, ho intrapreso una lenta ma integrale lettura, mettendomi faticosamente di pagina in pagina sulle tracce della “maquinación kalergica”.


Praktischer Idealismus.

Sulle prime, in verità, quello in cui mi inoltravo non m’è sembrato altro che un tipico prodotto della pubblicistica del suo tempo; uno delle migliaia e migliaia di saggi, opuscoli e libelli che nel primo dopoguerra tentarono in qualche modo di schiarire la mente ad un’Europa ancora del tutto inebetita dalla carneficina che s’era autoinflitta, senza a quel punto aver più alcuna idea chiara del perché. Né le prime pagine si fanno particolarmente ricordare per novità di pensiero, cosa con cui oltretutto mi davo conto della scarsa fama del testo kalergiano. Così si va dall’esortazione a bilanciare e superare il Pessimismus der Erkenntnis con l’Optimismus des Wollens (p. VI) – decisamente un classico di quell’epoca – alla non più originale idea di sostituire la “Pseudo-Aristokratie des Namens und des Goldes” con una “neue Aristokratie des Geistes” (p. IV).
La situazione non è parsa migliorare quando Kalergi ha intonato il solito lamento sul moderno “Unbehagen in der Kultur”, cioè sul disagio della civiltà e le sue cause: “La costrizione sociale raggiunge il suo apice nella moderna metropoli, perché qui la moltitudine e la sovrappopolazione sono maggiori. Infatti gli individui non solo vivono l’uno accanto all’altro, ma sovrapposti l’uno sull’altro, murati in blocchi in pietra artificiale (fabbricati); costantemente guardati e controllati con sospetto dalle istituzioni della società, essi sono costretti a sottostare ad una quantità di leggi e regolamenti che non hanno richiesto; e se ad essi vengono meno, vengono rinchiusi dai loro simili per anni (detenzione) o anche uccisi (pena di morte).” (p. 64-5. Traduzioni mie)
Altro locus classicus sin dai tempi di Montesquieu, e che Kalergi ripropone senza particolari aggiornamenti, è quello del particolare fardello dell’uomo nordico costituito dal rapporto conflittuale con la natura, a causa di un clima rigido e ostile, verso il quale il Conte sembra quasi avere una ruggine personale: “L’oppressione climatica è la più condizionante nei paesi civili del Nord. Qui ad un terreno non riscaldato dal sole, durante i brevi mesi estivi, l’uomo deve strappare cibo per tutto l'anno e nello stesso tempo procurarsi protezione dal freddo invernale con gli abiti, le abitazioni e il riscaldamento.” (p. 65)
L’Europa del nord è dunque infelice da entrambe i punti di vista: “L’uomo europeo è l’uomo meno libero, schiavo a un tempo della società e della natura. La società e la natura si scambiano la propria vittima: l'uomo che fugge dalla città nella solitudine per sfuggire al caos della società, si vede minacciato dal clima implacabile, dalla fame e dal gelo. L'uomo che fugge dalla violenza della natura nella città e lì cerca protezione fra i suoi simili, - si sente minacciato dalla società oppressiva che lo schiaccia e lo sfrutta.” (p. 65)

Tutte queste idee si davano in un vorticare di Kulturen, Zivilizationen, Rassen, Typen, Art, Temperaturen, Komplexe, nordische Mensch e mittelländische Geist anch’essi vecchia fissazione a metà fra il tardo positivista e il neo-romantico e che già anni prima avevano fatto sbottare al Croce “che sarebbe tempo di finirla con gli spiriti “germanici” e “latini”, che si prestano a ogni sorta di gioco.” (4) Non solo, ma in certi passi questi giochi concettuali eran declinati anche con quelle suggestioni irrazionalistiche e simbolistiche – tutt’altro che d’aiuto per il lettore a fissare bene le idee - che ricordano i grandi storici dell’arte di scuola viennese (per esempio si pensi, per certa fissazione “metereopatica”, al Worringer di Einfühlung und Abstraktion) o certi testi di Klages o di Jung: “La vita è condizionata da due fattori fondamentali: l’armonia e l’energia; tutti gli altri ne derivano. La grandezza e la bellezza dell’Asia si fondano sull’armonia. La grandezza e la bellezza dell’Europa si fondano sull’energia. L’Asia vive nello spazio: il suo spirito è contemplativo, introverso, silenzioso e chiuso; essa è femminile, vegetale, statica, apollinea, classica, idilliaca. – L’Europa vive nel tempo: il suo spirito è attivo, estrovertito, agitato e finalizzato; essa è maschile, animale, dinamica, dionisiaca, romantica, eroica. Simbolo dell’Asia è il mare che tutto abbraccia, il cerchio. - Simbolo dell'Europa è la corrente impetuosa, la linea retta. Qui si rivela il senso più profondo dei simboli cosmici di Alfa e Omega. Nel linguaggio dei segni, ci fa penetrare in quella mistica e sempre presente polarità di forza e forma, tempo e spazio, uomo e cosmo, che è dietro l'anima dell'Europa e dell'Asia: il grande Omega, il cerchio, l'ampia porta aperta sul cosmo - è il simbolo della divina armonia asiatica; il grande Alpha, un angolo acuto rivolto verso l'alto, che trapassa l'Omega - è un simbolo dell’intraprendenza umana e del funzionalismo europeo, che s’allontana dell’eterna calma dell'Asia. A e Ω sono anche in senso freudiano simboli inconfondibili di sesso maschile e femminile: l'unione di queste figure è la procreazione e la vita e rivelano l'eterno dualismo del mondo. Lo stesso simbolismo è probabilmente anche nei numeri 1 e 0: Uno finito come una protesta contro lo Zero infinito. - Sì contro No.” (p. 76)

Mentre mi dilettavo con questa sorta di cose, non smettevo ovviamente di stare in guardia per vedere in che modo nella selva consonantica del tedesco di Kalergi, si sarebbero finalmente profilate le spine appuntite del famigerato piano. E considerando il carattere piuttosto inoffensivo del testo che avevo dinanzi, mi chiedevo in che panni mai si sarebbe presentato qualcosa di così scioccante come l’intento “eurocìda”. Mi pareva alquanto strano che in un contesto di quella natura potesse esser formulato in modo esplicito, né sinceramente i tedeschi del primo dopoguerra mi sarebbero sembrati l’interlocutore adatto a cui, dopo l’atroce trauma della sconfitta, proporre anche il suicidio tramite meticciamento. Solo qualche anno prima, nel 1920, la presenza di alcuni soldati senegalesi dell’esercito francese di pattuglia nei pressi della Casa di Goethe e dell’Università di Francoforte aveva suscitato un’insurrezione di sdegno nazionale, con formali proteste del Presidente Ebert e del Cancelliere Müller. Questo per tacere del fatto che l’operazione sarebbe stata affidata – giusto per non far mancare nulla - alla volonterosa cura dell’élite ebraica, a cui molti allora imputavano il mitico Dolchstoss, la pugnalata alle spalle che aveva portato nel 1918 al crollo del fronte interno.
Ma forse – mi dicevo – Kalergi è seguace di quella “doppiezza” di cui si dice Leo Strauss sia stato poi il maggior campione, e dunque la sua grande Maquinación si presenterà in forme dissimulate e mimetizzate, magari proponendo la futura Zukunftsrasse non brutalmente come la volontà di lobotomizzare l’Europa perché il sangue semita trionfi sugli odiati gentili, ma come una narcosi tutto sommato accettabile, preferibile in ogni caso alle sofferenze che l’eroismo faustiano pretende. Magari, vista la fissazione per il clima di Kalergi, si presenterà come un vagheggiamento della pacifica vita del fellah nell’assolata valle nilotica prodiga di latte e di miele, rispetto al triste destino dell’uomo nordico sbattuto senza requie come l’Olandese volante negli Stahlgewittern, cupamente descritti da Ernst Jünger solo un paio d’anni prima.
D’altra parte non troppo diverse nella sostanza, pur se ovviamente contrapposte nell’apprezzamento, mi sembravano certe letture del pensiero di Kalergi nello specchio dell’antitetica ideologia di sinistra. Il filosofo Thorsten Botz-Bornstein, per esempio, vi ritrovava l’auspicio di una grande fusione dell’Europa con il continente africano, una sorta di Eurafrica dello spirito - a prima vista patria d’elezione degli afroeuropei prossimi venturi di cui ha parlato, sia pure facendo grazia al nostro Conte, un altro maître à penser come Umberto Eco. Anche in un sito giornalistico improntato all’universalismo più inappuntabile avevo appreso che quello di Kalergi in realtà null’altro era che il “sogno di una umanità che al termine del completo rimescolamento si sarebbe ritrovata”, etc. etc. (5)

Che fossero davvero queste le giuste chiavi per accedere al suo pensiero? Di pagina in pagina i dubbi crescevano. Vediamo alcuni punti.


Il ruolo della tecnologia.

La parte centrale del testo di Kalergi è dedicato al tema della tecnologia, anch’esso assai dibattuto nel primo dopoguerra, tanto da dar luogo in Germania ad uno degli innumerevoli Streite di cui s’è nutrita quella cultura, lo Streit um die Technik, appunto. E’ una questione che rientra nella più generale riflessione sulla modernità degli ultimi due secoli almeno da Rousseau in poi, e dunque i termini non se ne riassumono certo in qualche battuta. Diciamo però che l’evocazione e il controllo delle forze nascoste della natura attraverso la tecnologia – precipua hybris dei popoli europei – appare effettivamente alla radice della loro instabilità politica ed alla loro attitudine aggressiva ed espansiva. La tecnologia incarna infatti quella tendenza alla dismisura che rappresenta l’essenza del cosiddetto faustischen Geist della nostra civiltà: l’europeo è per definizione l’uomo che non si rassegna alla sua condizione e che per migliorarla è disposto a qualunque patto. La tecnologia tuttavia ha un carattere intrinsecamente mefistofelico perché nell’appagare i desideri dell’uomo suo padrone, finisce inevitabilmente per andar oltre l’ordine del mondo e scuoterne gli equilibri. Concede i suoi beni e mette a servizio la sua forza, ma solo al prezzo di una progressiva perdizione e di una finale catastrofe. D’altra parte in quegli anni il rapporto fra la tecnologia e il flagello della guerra era divenuto chiarissimo; la prima guerra mondiale era stato il primo esempio su larga scala della cosiddetta “Materialschlacht “, la guerra di materiali basata sull’industria pesante, e la totale indifferenza che essa aveva mostrato per vita e la dignità umane sembravano proprio essere il conto che il mostro della tecnologia, ribellatosi al suo incauto evocatore, aveva presentato.
“L’Europa” - scriveva anche Kalergi - scientemente si proietta dal presente verso il futuro; è in uno stato di perpetua emancipazione, riforma, rivoluzione; è sempre in cerca del nuovo, scettica, empia, in lotta contro abitudini e tradizioni. Nella mitologia ebraica lo spirito europeo è personificato da Lucifero – in quella greca da Prometeo: il portatore di luce, che reca la scintilla divina sulla terra, ma che si ribella contro l'Armonia asiatico-celeste ed il divino ordine del mondo; esso è il principe di questa terra, il padre della battaglia, della tecnologia, dell’illuminismo e del progresso, la guida dell’umanità nella sua lotta contro la natura.” (p. 83).

In verità nella Germania degli anni ’20, come in molti degli altri maggiori paesi europei, il clima politico che andò prevalendo fu poi tutt’altro che quello d’un antimodernismo nostalgico. Il modo in cui le élites politiche europee riuscirono a gestire i nuovi assetti politici - la cosa è risaputa - fu così illuminato e magnanime da lasciare un continente ad un tempo del tutto esausto dalla guerra, ma anche pieno di retropensieri di rivincita e di rivalsa, proiettati tutti verso una nuova inevitabile sfida militare. Così soprattutto in Germania finì per prevalere quello che lo storico Jeffrey Herf ha definito “reactionary Modernism”, cioè una valutazione positiva dell’industrializzazione e della tecnologia - indispensabili a qualsivoglia politica di potenza - da parte di molte componenti della stessa cultura di destra, cioè di quell’orientamento ideologico che tradizionalmente era stato più critico verso la modernità.
Anche una buona parte della sinistra si attestò peraltro su posizioni non troppo diverse: la sua inesauribile vena mitopoietica non aveva infatti alcuna difficoltà ad immaginare tanto il superamento dell’odiata modernità capitalista – responsabile di quel degrado esistenziale di cui il Lukács di Storia e coscienza di classe aveva fatto così efficace pittura – quanto nel contempo il ricorso all’elektrifikacija più frenetica per edificare un socialismo, sul modello bolscevico, fatto anch’esso di industrializzazione pesante ed inurbamento di massa. Edificazione, beninteso, di cui uno dei passaggi cruciali sarebbe certo stata una resa dei conti militare con il blocco dei vecchi stati borghesi.
In questo buio scenario di un’Europa sempre più divisa e sempre più in preda alla propria irrequietezza caratteriale, non mancò tuttavia una robusta corrente pacifista, cui Kalergi appartenne con convinzione, determinata ad un radicale cambio di mentalità ed all’abbandono della guerra come strumento che la tecnologia rendeva ormai inservibile: “la guerra – si legge in Praktischer Idealismus - è ovunque trattata da trionfatrice, impone la politica europea e si prepara a calare di nuovo sui popoli europei per annientarli definitivamente. Di fatto non può esservi dubbio che a causa dei progressi della tecnologia bellica, in particolare delle armi chimiche e dell’aviazione, la prossima guerra europea non lascerà questo continente più debole, ma lo schianterà definitivamente.” (p. 155)
Da simili premesse, dunque, si sarebbe potuto pensare ad un Kalergi esplicitamente attestato su posizioni antimoderniste: lo ewig Frieden, la pace perpetua, è un bene talmente desiderabile che per esso si possono sacrificare non solo la bugiarda gloria della guerra, ma anche la stessa moderna tecnologia con cui quella alimenta il suo fuoco più distruttivo e che anche nei periodi di pace degrada e avvilisce la condizione di gran parte della popolazione. Né mancano effettivamente in Kalergi alcuni passi che sembrano ispirarsi ad una corrente per così dire “neo-rousseauiana” nostalgica dell’umanità preindustriale: “La civiltà ha trasformato l'Europa in un carcere e la maggior parte dei suoi abitanti in forzati. L'esistenza di un bufalo nella foresta vergine, di un condor nelle Ande, di uno squalo nel mare è incomparabilmente migliore, più libera e fortunata di quello di un operaio di fabbrica europeo che giorno dopo giorno, ora dopo ora, incatenato alla sua macchina, deve svolgere attività innaturali per non morire di fame. In passato anche l'uomo è stato un essere felice, un animale felice. Viveva in libertà, come parte di una natura tropicale che lo nutriva e riscaldava. La sua vita consisteva nella soddisfazione dei suoi istinti; una vita appagante, prima che a troncarla fosse una morte naturale o violenta. Era libero; viveva nella natura - invece che nello Stato; giocava - invece di lavorare: per questo era bello e felice. La sua intraprendenza e la sua gioia di vivere erano più intensi di tutto il dolore che poteva colpirlo o di tutti i pericoli che lo sovrastavano. Nel corso dei millenni l'uomo ha perduto questo tipo di esistenza appagante e libera. Gli europei, che pensano di essere il culmine della civiltà, vivono in città innaturali e brutte un’esistenza innaturale e brutta, non libera, nociva e artificiale. Con i loro istinti atrofizzati ed una salute compromessa essi respirano l’aria malsana di spazi polverosi. L’organizzazione sociale, lo Stato, li priva di ogni movimento e libertà d'azione, mentre un clima rigido li costringe a lavorare per tutta la vita. La libertà che l’essere umano possedeva un tempo è perduta, e con essa anche la felicità.” (pp. 61-2)
Passi come questi – mi dicevo per parte mia - possono ben costituire la premessa logica e retorica per il rifiuto della vecchia Europa faustiana e quindi infine anche per il preannuncio della razza “neo-egizia”. Carattere precipuo della cultura del fellah – così come l’aveva sbozzata Oswald Spengler - è infatti la sua staticità: nei millenni esso ha atteso con fede i periodici doni che anno dopo anno la natura concedeva, e li ha messi a frutto sempre con le medesime tecniche primitive ed immutabili, senza mai usare della propria ragione per scoprirne le reali cause ed aumentarne lo sfruttamento. In tale atteggiamento spirituale quella cultura ha trovato il proprio equilibrio e la propria perennità.
Kalergi d’altronde – mi dicevo divagando ancora dietro i miei preconcetti - era un cattolico e anche in questi nostri ultimi anni chi altri più della Chiesa romana ha sostenuto l’idea che l’accoglienza di milioni di migranti dall’area islamica ed africana, oltre che un dovere di solidarietà, sia anche un’opportunità per un prezioso salto in alto d’ordine spirituale? Solo attraverso questo provvidenziale innesto infatti la nostra anima europea potrà purgarsi dai suoi veleni interiori, dalla sua mefistofelica modernità ed imboccare una più sicura via di redenzione. E’ necessaria – predicava per esempio qualche anno fa Carlo Maria Martini - “una scelta profetica per comprendere che il processo migratorio in atto dal Sud sempre più povero verso il Nord sempre più ricco è una grande occasione etica e civile per un rinnovamento, per invertire la rotta della decadenza del consumismo in atto in Europa occidentale.” (6) “In un mondo occidentale che perde il senso dei valori assoluti e non riesce più in particolare ad agganciarli a un Dio Signore di tutto, la testimonianza del primato di Dio su ogni cosa e della sua esigenza di giustizia ci fa comprendere i valori storici che l'Islam ha portato con sé e che ancora può testimoniare nella nostra società.” (7)

Tutti i conti sembravano tornare. L’unico problema per chiudere brillantemente il cerchio sono state però, come spesso avviene, le parole inopportune dell’autore. Kalergi infatti non solo scarta completamente dal sentiero già pronto, ma ne imbocca di furia uno affatto contrario, producendosi lungo tutto il suo saggio in un’entusiastica celebrazione del progresso tecnico, tanto che quel non molto chiaro “praktischer Idealismus” del titolo si rivela essere null’altro che un radicale “technischer Idealismus”. Il progresso tecnico infatti, lungi dall’essere un sentiero senza uscita da cui ritrarsi, è all’opposto l’unica via per recuperare, sia pure in un modo del tutto nuovo rispetto a quello originario di natura, una condizione umana degna e piena. La macchina industriale, come la lancia di Nesso, è in altre parole la sola arma che saprà sanare le ferite della modernità ed “aprire le porte del paradiso”: “Via - scrive dunque Kalergi - fuori dall’epoca del lavoro da schiavi, verso una nuova era di libertà e di otium, attraverso la vittoria dello spirito umano sulle forze del Natura! Il superamento del sovraffollamento grazie all'aumento della produzione, del lavoro dell’umanità schiavizzata grazie alla messa in catene della natura. - Il progresso tecnico e scientifico non deriva che da queste aspirazioni a superare la sottomissione alla violenza della natura attraverso il suo asservimento.” (p. 67). “La tecnologia ha creato le premesse di questa vita completa. (...) Quello che oggi è il privilegio di pochi può, attraverso un più ampio progresso tecnico, divenire la regola. La tecnologia ha aperto le porte del paradiso; attraverso lo stretto ingresso sino ad oggi pochi sono passati: ma la strada è aperta e attraverso l’impegno e l’intelligenza, tutti gli uomini un giorno saranno in grado di seguire i privilegiati della fortuna. Non dobbiamo preoccuparci: non siamo mai stati più vicini a quell’obbiettivo di oggi. Ancora pochi secoli fa, il possesso di una finestra di vetro, di uno specchio, di un orologio, di sapone o di zucchero era ancora un grande lusso: oggi la tecnologia applicata alla produzione ha concesso anche alle masse questi beni una volta scarsi. E se oggi chiunque possiede un orologio o uno specchio – chissà che entro il secolo ogni uomo potrà avere la sua automobile, la sua casa e il suo telefono. Più le cifre della produzione sono in rapido aumento rispetto ai dati demografici, e più la prosperità deve aumentare velocemente, e divenire progressivamente generale.” (pp. 112-3).
Il moderno Arbeiter industriale, cioè l’operaio che padroneggia la potenza della moderna tecnologia, è allora il nuovo ideale umano che deve essere proposto, la nuova nobiltà a cui va intestato l’”idealismo pratico” del titolo: “Questa era tecnologica è anche l'età del lavoro. Il lavoratore è l'eroe del nostro tempo; il suo opposto non è il borghese - ma il parassita. L'obiettivo del lavoratore è la creazione, del parassita è il consumo. Ecco perché la tecnologia è l’eroismo moderno ed il lavoratore è l’idealista pratico.” (p. V).
Si noti che questa posizione di Kalergi è di ben dieci anni precedente a quella della maggior opera teorica di Ernst Jünger, Der Arbeiter, dedicata anch’essa a questa nuova figura del “Lavoratore”. Ma Kalergi, grazie anche ad un tono assai meno pretenzioso, è più concreto rispetto alle ambigue e confusionarie teorizzazioni dello Jünger, dietro le cui tante figure, dall’operaio al collezionista di insetti, sembra sempre spuntare l’ombra frenetica del Landsknecht, la cui unica aspirazione è di fare macerie dell’aborrito mondo borghese. Kalergi invece dimostra un molto maggiore buon senso (“l’opposto del lavoratore non è il borghese”) e dunque alla fine anche una notevole capacità di prevedere sviluppi che - almeno in parte - hanno realmente avuto luogo: “La macchina rappresenta la liberazione dell'uomo dal giogo della schiavitù. Grazie ad essa un solo cervello può produrre di più e creare maggior valore di quanto possano fare milioni di braccia. La macchina è l’espressione materiale dello spirito umano, una matematica cristallizzata, la creatura benefica verso l’uomo, nata dalla forza spirituale dell'inventore e dalla forza muscolare degli operai. La macchina ha una duplice missione: aumentare la produzione e ridurre e facilitare il lavoro. Con questo incremento della produzione, la macchina sconfiggerà la miseria - e la schiavitù con la riduzione del lavoro. Oggi, i lavoratori conservano la loro umanità solo in minima parte - perché per lo più svolgono funzioni meccaniche: in futuro, la macchina prenderà queste su di sé, lasciando al lavoratore la parte organica, la parte umana. Così, la macchina apre la prospettiva di una spiritualizzazione e personalizzazione del lavoro umano”. (...) Soltanto allora il lavoro cesserà di spersonalizzare, meccanizzare, umiliare gli uomini; soltanto allora esso diverrà più simile ad un gioco, ad uno sport, ad una libera attività creatrice.” (pp. 108-9)
Anche la minaccia di una rivoluzione sociale di tipo comunista, alla quale Kalergi fu sempre fermamente contrario, potrà essere scongiurata soltanto realizzando i suoi stessi ideali di liberazione morale e di crescita materiale, grazie appunto alla tecnologia: “Nessuna giustificazione teorica del capitalismo vale maggiormente a legittimarlo quanto il fatto inoppugnabile che la sorte dei lavoratori americani (alcuni dei quali si recano in fabbrica a bordo della propria auto) è materialmente migliore di quella dei lavoratori russi i quali, più o meno tutti alla pari, sono ridotti a morire di stenti e di fame. La realtà è che il benessere è più importante dell’uguaglianza: meglio che tutti stiano bene, con alcuni che si arricchiscono, piuttosto che l’eguaglianza nella miseria generale. Solo l’invidia e il dogmatismo possono contestare questo giudizio. Certo la cosa migliore sarebbe una eguale ricchezza universale - ma questa è possibile per il futuro, non per il presente: e la può realizzare solo la tecnologia, non la politica.” (p. 132) “E’ un passaggio cruciale per il mondo; l’umanità attende oggi dal socialismo l’alba di un’età dell’oro. Questa svolta potrebbe anche arrivare; non tuttavia in virtù della politica ma della tecnologia; non grazie ad un rivoluzionario, ma ad un inventore; non sarà Lenin, ma piuttosto uno sconosciuto che forse già vive chissà dove, che riuscirà in futuro a liberare l’umanità dalla fame, dal freddo, dal lavoro coatto, per mezzo di qualche fonte di energia nuova e senza precedenti.” (p. 105)


Il problema dell’’elitismo’.

Anche solo per il poco detto sinora, il ritratto corrente del Kalergi fautore del meticciamento afro-europeo, non può non lasciare perplessi. Se la tecnologia moderna è infatti la sola speranza di risolvere i nodi della modernità, a condizione di stringere viepiù la loro benefica presa sull’umanità del futuro, è un po’ arduo capire con quale costrutto egli avrebbe dovuto poi auspicare una Kreuzung antropologica e spirituale proprio con le popolazioni culturalmente più estranee e refrattarie ad essa.
L’unica ipotesi ad hoc che forse poteva ancora salvare il castello transilvanico che Honsik e gli altri avevano edificato attorno alla tomba del Conte Kalergi, mi sembrava a questo punto l’altro fondamentale pilastro concordemente attribuito al suo pensiero, e cioè l’‘elitismo’. Al tema dell’Adel, della ‘Nobiltà’, era infatti dedicata tutta la prima parte di Praktischer Idealismus, e proprio in essa era contenuta la profezia circa la futura razza “neoegizia”.
Nella descrizione poco lusinghiera che ne Il tramonto dell’Occidente Spengler aveva dato dei cosiddetti Fellachenvölker, “il cui esempio più tipico è costituito dagli Egiziani a partire dal periodo romano” (8), è centrale l’idea che essi, oramai spossati da “un’infinita stanchezza” (p. 927), non siano più soggetti di storia, ma di un mero “accadere zoologico“ (zoologischen Geschehen p. 720 ss.) – e finiscano così per diventare la base puramente materiale sulle cui spalle si avvicendano successive élites di conquistatori, che con essi non hanno alcun contatto che non sia di dominazione e sfruttamento. Come Spengler avrebbe scritto ancora in Jahre der Entscheidung, del 1933, i popoli ridotti a questo stadio “non possono più avere un ruolo autonomo nel mondo delle grandi potenze. Essi cambiano i loro padroni, magari cacciandone uno (...) ma solo per soccombere ad un altro. Essi non avranno mai più una forma propria di esistenza politica. Per questo sono troppo vecchi, troppo rigidi, troppo esauriti. (...) Essi costituiscono la preda ed il serbatoio di risorse per le guerre delle potenze straniere, i loro paesi sono i campi delle loro decisive battaglie, e solo per questo motivo essi possono raggiungere una grande, se pur transitoria, rinomanza.” (9)
A ragione di ciò il popolo dei contadini della valle del Nilo aveva subìto una lunga serie di dominazioni di carattere diverso, - dopo quelle propriamente nilotiche, le libiche, nubiane, mesopotamiche, greche, romane, arabe, europee. Non che queste diverse élites non avessero apportato via via anche un certo grado di innovazione e di progresso tecnico nel paese; si pensi alla grande stagione della scienza e della tecnologia ellenistica, che aveva avuto ad Alessandria uno dei suoi massimi centri, o alle innovazioni amministrative dei Romani e degli Arabi, o alla vernice di modernizzazione che era seguita alla colonizzazione inglese. Ma tale progresso era funzionale soltanto a meglio assicurare la presa sul paese da parte di quelle caste di dominatori e a conservare la massa della popolazione incatenata ad immutabili condizioni di vita e di produzione. Le ribellioni occasionali, se pur violente e pericolose, erano politicamente insignificanti, perché non finalizzate ad alcuna progettualità autonoma. “Cruel ma sin carácter”, “cruel pero fácil de dirigir”, aveva scritto anche Honsik.
A questo punto l’apprezzamento del progresso tecnico nel quadro della futura Fellachenkultur europea pianificata dalla macchinazione di Kalergi poteva darsi forse proprio attraverso questo semplice schema: la tecnica portata alla sua massima espressione, ma solo come strumento dell’élite per dominare stabilmente milioni di persone prive oramai di coscienza civica e politica e capaci solo di una violenza occasionale e inconcludente.
E d’altronde: che negli stessi anni di Praktischer Idealismus ne avesse intuito qualcosa anche il grande regista Fritz Lang? Nel suo celebre film Metropolis, apparso due anni dopo nel 1927, aveva infatti rappresentato da par suo proprio lo scenario di una società del genere, in cui una ristretta élite tecnocratica, grazie al monopolio della tecnologia ed all’incubo di una catastrofe ambientale incombente, signoreggia una massa di lavoratori schiavizzati e privi di diritti e di libertà. Anche qui regna la più rigida endogamia e la crepa fatale al sistema si apre appunto quando due appartenenti alle caste separate, Freder e Maria, si innamorano, cioè violano il fondamentale precetto che mantiene rigidamente segregata l’élite dalla restante popolazione.
Un’ulteriore carta su siffatto castello di ipotesi poteva magari essere il successivo ruolo, tutt’altro che secondario, svolto da Kalergi nella costruzione di quella che oggi è la grande Unione delle stelle in campo blu. L’accusa ricorrente che le si rivolge è infatti di esser nata sin dall’inizio e poi essersi rivelata sempre più, come una tecnocrazia burocratica senza alcun rapporto diretto con la massa dei cittadini, e che interviene dispoticamente ad imporre regole e prescrizioni. La pubblicistica della destra radicale, che ostenta sempre il proprio patriottismo continentale, com’è ben noto è in grandissima parte fieramente avversa all’ideale comunitario, ed uno degli epiteti più infamanti con cui Honsik bolla l’odiosa figura di Kalergi è quello appunto di “padrino de la Unión Europea”.
Così aggiustata la cosa, i conti sembravano tornare di nuovo: il volto affilato del dittatore Joh Fredersen e quello tutt’occhi dello scienziato Rotwang possono affacciarsi ancora sullo spettacolo dei nuovi fellah incatenati alle macchine, dagli spalti di Metropolis, l’alto nido del privilegio…

Macché. Basta leggere ancora due pagine di fila del testo kalergiano ed il maniero si sdraia nuovamente. Se c’è infatti una cosa che il nostro Conte ripete in modo incessante ed inequivoco è proprio che carattere precipuo della modernità è innanzitutto quello di sciogliere e disgregare ogni gerarchia sociale cristallizzata. E questo non solo in senso orizzontale nella gran massa della popolazione, ma anche sull’asse verticale che mette in relazione élite e governati.
Come s’è visto, per Kalergi lo sviluppo della tecnologia - il “materialisierter Menschengeist”, la “gefrorene Mathematik” - non potrà mai esser guidato, proprio per l’intelligenza e la creatività che incorpora, da una casta chiusa ed impenetrabile di privilegiati per nascita. Lo sviluppo e il dominio della tecnologia sono riservati piuttosto ad una ”Aristokratie der Tüchtigkeit”, (p. 42) un’élite selezionata per competenza e talenti e che quindi per definizione non potrà mai essere di carattere ereditario. Il primato di questa élite, ad avviso di Kalergi, non s’è ancora stabilito; ma le vecchie compartimentazioni create da qualsivoglia fattore estrinseco – sociale, economico, religioso – e che si perpetuano anche grazie all’assenza o alla scarsa frequenza di matrimoni fra i loro componenti, andranno sempre più sciogliendosi in futuro man mano che il controllo familiare e sociale sulle scelte private dei singoli verrà meno, indebolendo la tendenza all’endogamia. Questo inevitabilmente porterà alla perdita di quella certa uniformità di carattere, di abito mentale e di comportamento che appunto caratterizzano gli individui che nascono e crescono in ambienti chiusi e fortemente condizionanti. Ciò che ne deriverà sarà inevitabilmente un’interazione ben più complessa e articolata fra i vari fattori che possono modellare il carattere e i talenti della singola personalità (in cui chiaramente Kalergi, in uno scritto del 1925, include anche i fattori di tipo strettamente genetico). A quel punto ogni individuo sarà sulla medesima linea di partenza di ogni altro e dovrà contare soltanto sulle proprie forze, senza più poter far tesoro dei privilegi d’una nascita fortunata, né patire la condanna alla mediocrità, magari immeritata, dovuta ad una bassa estrazione sociale.
Una tale mobilità sociale – sia chiaro - presupporrà sempre per definizione un alto ed un basso tra cui muoversi e dunque continuerà ad implicare la diseguaglianza fra gli individui. Questa però sarà resa razionale ed imparziale perché imposta dalle esigenze di un apparato produttivo ed una vita sociale e culturale sempre più razionali e complesse. Dunque gerarchia di individui, ma non di classi o di caste.
La nuova nobiltà sarà una “internationale und intersoziale Adelsrasse” e in tal modo “l’uomo nobile [Adelsmensch] del futuro non sarà un aristocratico tradizionale, o un appartenente alla comunità ebraica, o un borghese o un proletario, ma avrà un carattere di ‘sintesi’. Le razze e le classi in senso moderno spariranno e rimarranno le singole personalità. Così sarà solo attraverso la fusione con il migliore sangue borghese, che gli elementi ancora capaci di crescita della vecchia aristocrazia tradizionale potranno conoscere una nuova fioritura. Solo attraverso l’unione con la parte più vitale dell’Europa dei gentili, che l'elemento ebraico della nobiltà futura potrà raggiungere il pieno sviluppo. (...) La nobiltà del passato si è basata sulla quantità: la nobiltà feudale sul numero degli antenati; quella dei plutocrati sulla quantità del danaro. La nobiltà del futuro sarà basata sulla qualità: il valore personale, la personale compiutezza, la piena educazione del corpo, dell'anima, dello spirito. (...) Oggi, alle soglie d’un’epoca nuova, una nobiltà del caso [Zufalladel] si sostituisce alla nobiltà ereditaria del passato; al posto di razze nobili, degli individui nobili; individui che si elevano a modello in virtù della composizione fortuita del sangue. (...) Una gerarchia dovuta alla natura rimpiazzerà una gerarchia artificiale, del feudalesimo e del capitalismo.” (pp. 56-7).
Anche Spengler qualche anno prima (e certamente Kalergi avrà meditato sull’allora notissimo Tramonto dell’Occidente) aveva toccato questo tema: la differenza fra i Fellachenvölkern e i popoli protagonisti di storia - i Kulturvölkern - non è nella presenza di un’élite, che è cosa comune ad entrambi, ma semplicemente nel fatto che nei secondi l’élite che prende forma non è sovrimposta brutalmente dall’alto, ma è piuttosto l’espressione naturale e spontanea della parte più cosciente, vitale, talentuosa del popolo soggetto di storia – dello Adel appunto: “Proprio per via della profondità del sentimento che definisce una nazione, è impossibile che un popolo sia in ogni sua parte in egual grado, un popolo di civiltà, una nazione. Solo nei popoli primitivi ogni singolo ha lo stesso sentimento dell’appartenenza etnica. Ma il destarsi di una nazione alla coscienza di se stessa avviene invece, senza eccezione, per gradi, quindi prevalentemente in date classi o caste, la cui anima è più forte e che tengono in soggezione le altre mercé la loro più intensa esperienza. Ogni nazione vien rappresentata dinanzi alla storia da una minoranza. All’inizio di un ciclo, questa minoranza è costituita dalla nobiltà che sorge proprio in tale fase come il fiore di un popolo [als die Blüte des Volkstums entstehende Adel] (...) Un popolo di civiltà che sia sullo stesso livello in”tutti” i suoi singoli membri non esiste. Ciò può verificarsi solo fra popoli primitivi o popoli di fellahim [Urvölkern und Fellachenvölkern], solo in una sostanza etnica priva di profondità e di rango storico. Ma finché un popolo è nazione, e realizza il destino di una nazione, in esso vi sarà sempre una minoranza che lo rappresenta e l’attua in nome di tutta la sua storia.” (p. 903).

Kalergi riprende questi temi (che peraltro erano allora all’ordine del giorno della riflessione politica europea anche per merito della cosiddetta Scuola italiana di politologia di Mosca, Pareto e Michels) in modo assolutamente lineare e inequivoco. Nella società che egli auspica non vi deve essere una “circolazione delle élites” quale che sia, ma essa deve avere un carattere più alto e nobile rispetto alla mera competizione darwiniana del tutti contro tutti, così da far sbocciare ”die Blüte des Volkstums”, come s’era espresso Spengler. Egli dunque ha parole dure non soltanto nei confronti della vecchia società chiusa in cui domina il privilegio ereditario e familistico, ma anche di quella più recente in cui la mobilità sociale dal basso è bensì presente, ma basata più che altro sulla capacità di farsi largo grazie all’arrivismo e la mancanza d’ogni scrupolo: “L’attuale plutocrazia dei piccoli faccendieri rappresenta assai più una sorta di “cachistocrazia” (Kakistokratie) morale che un’aristocrazia dell’efficienza. Col progressivo venir meno delle differenze fra imprenditorialità ed affarismo, il capitalismo è compromesso e screditato nel sentire e nel dibattito pubblico. Nessuna élite può sopravvivere in modo permanente, senza autorità morale. Una volta che la classe dirigente cessa di essere un simbolo di valori etici ed estetici, la sua caduta è inarrestabile. La plutocrazia è, rispetto ad ogni altra aristocrazia, priva di valenza estetica. Occupa lo spazio politico di un'aristocrazia, ma senza offrire alcun nobile valore culturale. Ma l’opulenza è tollerabile solo quando si veste di bellezza e si legittima come portatrice di una cultura estetica. Sino ad oggi però la nuova plutocrazia non mostra che una triste volgarità ed una sfacciata bruttezza: la sua ricchezza è sterile e ripugnante. La plutocrazia europea ignora – a differenza di quella americana – la propria missione etica ed estetica: i benefattori sociali su grande scala sono rari così come i mecenati. Invece di concepire la propria ragion d'essere in un capitalismo sociale, nella capacità di fare sinergia con le risorse disperse della nazione per dare forma alle generose opere della creatività umana - i plutocrati, nella grandissima parte dei casi, si credono in pieno diritto, senza alcun senso di responsabilità, di fondare la propria bella vita sull’indigenza delle masse. Invece di essere amministratori saggi dell’umanità, ne sono gli sfruttatori, piuttosto che farsene guida, la sviano. Con questa mancanza di cultura estetica ed etica, la plutocrazia attira su di sé non solo l'odio, ma anche il disprezzo dell'opinione pubblica e dei suoi leader spirituali: e poiché non ha saputo essere degna del proprio ruolo di punta, essa sarà destinata alla rovina.” (pp. 42-3)
A questa spregevole borghesia affaristica Kalergi non manca di opporre il modello non soltanto, come s’è visto, di un’alta borghesia e di una nobiltà di censo che abbiano conservato i propri migliori valori, ma anche di un proletariato temprato e nobilitato dalla sua centralità produttiva, dalla sua capacità di gestire in modo protagonistico, insieme all’élite scientifica, la decisiva sfida della tecnologia moderna. Così, con concetti che ricordano la tradizione soreliana, Kalergi prospetta esplicitamente gli ideali faustiani della lotta e del lavoro - “beide männlich, beide nordisch” (p. 120) - come valori da estendere anche in particolare alla classe lavoratrice e proletaria, e che anzi vanno considerati suoi propri non meno, o forse più ancora, che di altre classi e della stessa borghesia.
Questo protagonismo delle classi lavoratrici è dunque fatto di crescita anche spirituale, caratteriale; crescita alla quale i nuovi di mezzi di comunicazione di massa, per esempio il cinema, hanno a dare un contributo cruciale: “La tecnologia ha offerto all’epoca che si apre una nuova forma di espressione: il cinema. Il cinema è oramai prossimo a prendere il posto del teatro di oggi, della Chiesa di ieri, del circo e dell'anfiteatro dell’altro ieri e di svolgere quindi un ruolo di primo piano nella cultura del lavoro del futuro Stato. Malgrado tutte le sue carenze artistiche già oggi il cinema comincia ad diffondere in modo subliminare un nuovo Vangelo nelle masse: il Vangelo della forza e della bellezza. Esso annuncia, di là del bene e del male, la vittoria dell’uomo più forte e della donna più bella. (...) Così dallo schermo in mille modi esso predica: “uomini, siate forti!”, “donne siate gentili!” Affinare e ampliare questa missione educativa verso le masse, che è ancora in gran parte inespressa nel cinema, è una delle più grandi e più significative responsabilità degli artisti di oggi: poiché il cinema del futuro avrà senza dubbio sulla cultura del proletariato un’influenza ben maggiore di quella che il teatro ha avuto sulla borghesia.” (pp. 117-8)
Insomma il pieno sfruttamento della tecnologia è finalizzato ad un innalzamento della Gesamtmenschheit al ruolo di Herrenkaste: “Lo scopo finale della tecnologia è questo: la sostituzione del lavoro da schiavi con il lavoro meccanizzato; l’innalzamento dell’intera umanità a casta signorile al servizio della quale lavora un esercito di forze della natura sotto forma di macchinari.” (p. 107)

Le parole di Kalergi, come ben si vede, sono certamente improntate, come un po’ tutto il resto del libro, ad un grande Optimismus des Willens, tanto seducente nei colori con cui rappresenta la nuova società, quanto spesso sommario e un po’ troppo indulgente alla retorica. Ma se la questione si limita alle intenzioni palesi di Kalergi e le sue parole sono da prendersi alla lettera, ciò che s’è detto già dimostra che non v’è nulla di più remoto da quanto v’ha letto certa destra radicale. E’ del tutto palese infatti che il carattere dinamico e razionale del progresso tecnico, su cui è fondata la società del futuro, non potrebbe mai provocare lo scioglimento delle vecchie compartimentazioni soltanto per crearne un’altra ancora più fossilizzata. Come si legge nella chiusa, il problema è di “passare da ‘una diseguaglianza ingiusta, attraverso l’eguaglianza di tutti, verso una diseguaglianza giusta’, e dalla demolizione di ogni pseudo-aristocrazia, muovere verso una nuova nobiltà oggettiva.” (p. 57).
Dalla crescita di benessere materiale e di dignità del proletariato, oltretutto, Kalergi vede assicurata non soltanto la pace sociale ma, in virtù di questa, anche la protezione più adeguata da possibili future guerre, in particolare dalla minaccia sovietica da est. (10) Quindi il pacifismo non suggerisce affatto a Kalergi – giusto il “Piano” denunciato da Honsik - l’idea perfida di comprare la tranquillità al prezzo dell’avvilimento dei popoli europei ad una condizione di passività politica e di sudditanza comatosa ad una casta di nuovi signori. All’opposto essa potrà scaturire solo dalla crescita sociale delle classi lavoratrici. Non la pace ottenuta con lo sfruttamento, ma quella che si guadagna dal suo superamento: “Si manifesta qui la stretta correlazione fra la politica sociale e la politica estera, fra la libertà e la pace. Poiché ogni oppressione, sia di tipo nazionale che sociale, porta in sé il germe della guerra, la lotta contro lo sfruttamento rappresenta un fattore essenziale della lotta per la pace.” (p. 175)


Alla ricerca della Zukunftsrasse.

A questo punto, non tornandomi più i conti da nessun verso, ho provato a riverificare con un po’ più di attenzione la requisitoria di Honsik, se magari fosse lettore più penetrante o potesse fornire ulteriori indicazioni anche riguardo ad altri passi di questa o di successive opere di Kalergi. In sostanza però l’unica citazione significativa che vi si trova è ancora e sempre quel famoso passo, echeggiante un po’ ovunque sul web – della famigerata “eurasisch-negroide Zukunftsrasse” e che dunque si deve pensare esaurisca e condensi in tre o quattro righe, con fulminante magia di sintesi, un intero piano di annientamento continentale: “L'uomo del lontano futuro avrà carattere ibrido. Le razze e le caste attuali verranno meno col progressivo allontanamento nello spazio, nel tempo e dai tabù del pregiudizio. La futura razza euro-asiatico-negroide, esteriormente simile a quella dell'antico Egitto, sostituirà la pluralità dei popoli attraverso una maggiore variabilità individuale.” (p. 22-3).
Di più circostanziato su tale specifica “Zukunftsrasse” non vien detto, né qui né altrove nel saggio del 1925 (ed in verità nemmeno nei successivi scritti). Ciò che immediatamente segue è una ripresa del tema generale delle differenze caratteriali dell’uomo nato in contesti endogamici, rispetto a quello nato in contesti più aperti.

In che quadro generale – vien fatto allora di domandare a questo punto - Kalergi faceva uso di termini come Krezung, Rassen, Mischling etc.,? E’ infatti il momento d’essere espliciti: è del tutto evidente che agli occhi di un europeo di oggi (ed è proprio ciò su cui conta la propaganda della destra radicale) il passo citato ed in particolare il termine usato da Kalergi – “eurasisch-negroide”- non può che essere automaticamente collegato allo sviluppo multirazziale delle società europee nei modi che conosciamo ai nostri giorni; come scrive Honsik: “el Plan de Kalergi del mestizaje europeo (...) muestra la realidad de la política de inmigración en el año 2003.” (p. 135).
Era questo lo scenario presente anche a Kalergi non solo in questo singolo passo ma in tutto il complesso dei suoi scritti? C’è per esempio nella sua opera – di un uomo nato dal matrimonio di un aristocratico mitteleuropeo con una nobildonna giapponese - una trattazione più ampia di un processo di Kreuzung fisica, politica, spirituale fra umanità europea e umanità “asiatica”? Un’idea per esempio del rapporto fra cristianità occidentale e Vicino Oriente islamico? E ancora: è analizzata la prospettiva di una progressiva osmosi fra continente europeo e continente africano – quell’idea dell’Eurafrica afro-europea di cui si va parlando in questi nostri ultimi anni?

Si tenga presente che scenari apparentemente analoghi non erano certo sconosciuti nella prima metà del secolo scorso. L’espansione coloniale europea nel continente africano era allora incontrastata e già questo non poteva non innescare la fantasia dei geopolitologi del tempo. In Italia per esempio un docente di geografia coloniale, Paolo D’Agostino Orsini, pubblicò nel 1934 un saggio intitolato “Eurafrica. L’Europa per l’Africa, l’Africa per l’Europa”, che non mancò di offrire spunti alla retorica mussoliniana sul nuovo impero dei colli fatali. Si trattava però essenzialmente, come si può immaginare, dell’idea di una sempre più accentuata europeizzazione coloniale dell’Africa, tanto che, ancora nell’immediato dopoguerra, sulla rivista dell’Istituto geografico militare di Firenze si teorizzava addirittura che l’emigrazione europea verso sud avrebbe portato ad uno dislocazione delle popolazioni nordafricane “spinte lentamente, quasi insensibilmente, verso quei territori dell’Africa equatoriale e subequatoriale in cui la vita degli europei è negata”. (11)
Erano scenari di un’epoca che oggi appare remotissima. Un’epoca in cui un’Europa in piena crescita demografica, respingeva nell’ombra qualunque cultura aliena intralciasse i suoi passi, e che quindi di per se stessa non poteva che rimanere del tutto intangibile dalla barbarie ed inconsutile nella sua purezza.
Non c’è bisogno di dire che quel che invece si vede oggi “mirando per la ventana” è qualcosa di alquanto differente e cioè piuttosto la prospettiva opposta di una progressiva afro-islamizzazione dell’Europa. Tutte le teorizzazioni recenti circa i futuri afroeuropei, come quella proposta da Umberto Eco o quella della martiniana “scelta profetica”, hanno come loro palcoscenico esclusivamente i paesi del nostro continente, senza aver nulla a dire sull’eventuale evoluzione dell’Africa stessa, se non magari sottintendendo che quest’ultima, come anche il mondo islamico, farà bene intanto a guardarsi dall’invadenza dei deteriori modelli occidentali.

Anche questo secondo scenario – va detto - non era del tutto ignoto ai tempi di Kalergi ed alcuni intellettuali come Oswald Spengler o Walther Rathenau ne parlarono esplicitamente, e in termini di grande allarme. Scriveva per esempio Spengler nel 1933 in Jahre der Entscheidung: “Il mondo bianco è di fronte alla prospettiva di soccombere a causa di una guerra sociale scatenata alle sue spalle dalle forze di colore [farbigen Macht] . E nessuno osa guardare alle reali cause di questa catastrofe e di fissare lo sguardo nel suo abisso. Il mondo bianco occidentale è per lo più governato da idioti - se pure si può parlare di governo, cosa su cui si può avere qualche dubbio. Al capezzale del sistema economico dei paesi bianchi si avvicendano ridicoli governanti che non sanno guardare oltre l’anno e che litigano su miseri rimedi a partire dalle loro visioni “capitaliste” o “socialiste”, miopi e da tempo obsolete. E d’altronde, la vigliaccheria rende ciechi. Nessuno discute delle conseguenze della più che secolare rivoluzione mondiale che s’è innescata nella profondità delle grandi metropoli bianche ed ha compromesso la vita economica – e non solo quella. Nessuno vede tutto ciò, nessuno osa vederlo.” (p. 97)

Bene, che posizione assumeva Kalergi su queste questioni? Dell’interpretazione di Honsik e della destra complottologa si va dicendo sin dall’inizio: il Conte non solo ebbe consapevolezza di tale sciagurata prospettiva, non solo se n’era perfidamente compiaciuto, ma addirittura le diede impulso e continuità con un’azione cospirativa fatta di scritti teorici e macchinazioni diplomatiche.
Anche a sinistra però, come pure s’è accennato, un qualche occasionale tentativo di rivalutazione della sua figura in chiave universalistico-fusionista non è mancato. Il contrapposto sogno del “ritrovamento dell’umanità” dopo “completo rimescolamento” – qui non più nefando matricidio, ma profetico embrassons-nous planetario – sembra per esempio chiaramente adombrato in un articolo del già citato filosofo liberal Thorsten Botz-Bornstein – uno specialista in “contaminazioni spirituali”.
L’articolo, intitolato “European Transfigurations — Eurafrica and Eurasia: Coudenhove-Kalergi and Trubetzkoy Revisited” del 2007 (12), ha infatti voluto celebrare il presunto contributo di Kalergi all’ideale del grande abbracciamento transcontinentale fra Europa ed Africa, fatto appunto non solo di comuni interessi economici e materiali, ma soprattutto d’osmosi d’anime. Ed in effetti, se si medita sull’articolo in questione mentre la lettura del testo di Kalergi è ancora fresca nella mente, non si può che convenire appieno con Botz-Bornstein che il Conte, contrariamente ad uno Spengler, non ebbe mai a paventare o avversare siffatta fusione culturale e spirituale fra Europa ed Africa. Ma nasce anche il sospetto – bisogna dire - che questa attitudine abbia qualcosa a che vedere col fatto che in Kalergi una tale prospettiva non venga nemmeno formulata o ipotizzata, sia pure in modo vago od occasionale, e sia sistematicamente e pervicacemente assente da tutti i suoi scritti.

E’ infatti lo stesso concetto di un’autonoma spiritualità, di una significativa dimensione culturale dei popoli colorati dell’Africa ad essere in Kalergi del tutto irreperibile, così come anche una qualsivoglia trattazione della soggettività politica del mondo islamico (di cui invece, sia pur su di una prospettiva spostata sul millennio precedente, aveva ampiamente trattato Spengler e con toni non privi d’ammirazione). Questo in un autore che era sensibilissimo a problematiche del genere e che proprio sul confronto fra anima europea ed anima estremo-orientale si dilunga invece con grande impegno analitico e con non poca enfasi retorica.

Non è possibile far citazioni a riprova di quanto si afferma perché, appunto, non si saprebbe dove trovarle. E il medesimo problema deve avere angustiato lo stesso Botz-Bornstein il quale, lodevolmente consapevole che a tutto c’è un limite, ammette di buon grado anch’egli che Kalergi “non dice alcunché sulla cultura africana o sugli africani in generale (eccetto in un unico passaggio di Europa erwacht! dove vagamente suggerisce che le popolazioni arabe dell’Africa probabilmente adotteranno i costumi europei.)” (pp. 569-70)
Questo fatto così singolare e spiacevole, nondimeno, non induca per carità ad alcuna pigrizia interpretativa! L’idea in effetti può non esserci, ma resta bella, e quindi in cuor suo Kalergi dovette cullarla segretamente. Non parlò forse egli dell’“impossibilità concepire le “nazioni” come entità chiuse in termini di linguaggio, stato, storia, cultura, geografia o razza.”? (p. 571) Del fatto che “non si può definire una “nazionalità” individuale”? (p. 570) Che “lo spazio geografico dell’Europa è un qualcosa di fluido che si fonda sull’immaginazione piuttosto che su dati di fatto geografici e politici”? (p. 573) etc. etc. Che poi magari si stesse riferendo a tedeschi e francesi e non all’Europa e all’Africa, queste son minuzie che sarebbe malizioso e provocatorio evocare.
E così, su questo bel fondamento filologico, ecco ergersi un rocciosissimo argumentum mirabile: “given the remarkable emphasis that Coudenhove lays on the notion of ‘‘fusion’’ when it comes to culture, I wonder if a geographical model of convergence does not emerge here as a possibility for cultural formation of Eurafrica.” (p. 570)
Detto in altre parole, l’autore in questione – Kalergi - sulla base di premesse che pur aveva ben presenti (l’esistenza di legami materiali e geografici fra Europa ed Africa), non ha mai condiviso o anche solo formulato le conclusioni (la fusione culturale fra i due continenti) che fanno gioco all’ideologia liberal del suo interprete – l’ineffabile Botz-Bornstein. Quest’ultimo tuttavia sulla base di citazioni del tutto generiche e fuori contesto, si ritiene legittimato a chiedersi se tali conclusioni alla fin fine non debbano esser tratte. Ma tratte da chi? Da Kalergi? E allora perché non ne ha mai parlato? Tratte da Botz-Bornstein? E allora cosa c’entra Kalergi?
Miserabile trufferia di parole, microesemplificazione fra le infinite, di come certa cultura politically-correct sia abituata a mistificare i fatti storici o scientifici. Disonestà intellettuale tanto più pericolosa appunto perché non va in giro con i sonagli farseschi d’un paria come Honsik, che si fa sentire di lontano, ma incede nei “panni reali et curiali” della sua albagìa cattedratica, e sa bene che tutto verrà perdonato a chi segue complice la corrente del conformismo.

E peraltro -se è indubbio che il concetto in positivo di “African culture” è sostanzialmente irreperibile negli scritti di Kalergi - è proprio vero che egli non abbia mai scritto nulla “about Africans in general”, come incautamente afferma Botz-Bornstein?

(sequitur).

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(1). www.scribd.com/doc/149368430/Gerd-H...-Kalergi#scribd
(2). Europäische Union Paneuropa. Der Untergang der Völker Europas in einem eurasisch-negroiden Völkergemisch. Volkserhaltung beim jüdischen Volk. https://archive.org/details/EuropaeischeUn...rVoelkerEuropas
(3). www.quieuropa.it/il-piano-kalergi-q...etto-sulleuropa
(4). Materialismo storico ed economia marxistica, p. 49 n. 1. http://it.scribd.com/doc/243708600/Benedet...rxistica#scribd
(5). www.giornalettismo.com/archives/117...iano-kalergi/2/
(6). Cit. in R. De Mattei, De l’utopie du progrès, au règne du chaos, p. 117.
(7). www.chiesadimilano.it/polopoly_fs/1.43026.../menu/.../noelislam.pdf.
(8) Il tramonto dell’Occidente, p. 898. http://gen.lib.rus.ec/book/index.php?md5=7...c35e30920021117
(9). p. 41. https://archive.org/details/Spengler-Oswal...er-Entscheidung
(10). “L’Europa non è in condizione di cambiare l’atteggiamento politico dei dirigenti russi, il cui sistema è espansivo. (...) Ma i pacifisti europei non possono trascurare il fatto che la Russia si sta riarmando in nome dell’eguaglianza sociale e che oggi milioni di europei considererebbero un’invasione russa come una guerra di liberazione. Più questa convinzione si diffonde fra le masse europee, più questa minaccia si fa incombente. (...) Il rivoluzionarismo sociale occidentale non rinuncerà all’Internazionale di Mosca se non sperimenta in modo concreto che la condizione ed il futuro del proletariato nei paesi democratici sono migliori di quelli dei lavoratori sovietici.” (175)
(11). Cit. in M. Antonsich, Eurafrica, dottrina Monroe del fascismo., p. 264. www.academia.edu/2286454/Eurafrica...oe_del_fascismo
(12). www.academia.edu/.../European_Transfigurations

Edited by Institor - 22/4/2016, 02:01
 
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